Il terrorismo islamista gioca la sua partita a scacchi e si tratta di una partita falsata, perché adopera sullo scacchiere dei matti fanatici che decidono di darsi la morte - quando ce la fanno - per onorare la loro religione in cambio, nella loro grottesca rappresentazione ormai in favor di telecamera, di un pezzo di Paradiso, conquistato con le stragi di noi infedeli. Anzi il termine giusto in arabo - toccherà impararlo - è "Kafir" (in arabo: "كافر, kāfir"), cioè la persona che non crede nel Dio islamico, solitamente tradotta con "non credente, miscredente" o "infedele". Nel 1936 sulla "Treccani" l'illustre storico valdostano, Federico Chabod, così tratteggiava il termine "guerre di religione".
«Con tale qualifica si sogliono designare, in genere, i contrasti e le lotte che si susseguono nell'Europa centro-occidentale, fra stati cattolici e stati passati alla Riforma, o, nell'interno di un unico stato, fra partito cattolico e partito riformato, dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559) e dal Concilio di Trento, sino alle paci di Vestfalia (1648): in guisa, cioè, da abbracciare con una denominazione comprensiva un secolo circa di vita europea che ha per fasi salienti le guerre interne in Francia, la lotta di Elisabetta d'Inghilterra contro Filippo II di Spagna, la rivolta dei Paesi Bassi contro la Spagna e la guerra degli Ottant'anni, la guerra dei Trent'anni». Precisa poi Chabod: «Più specificamente, però, la designazione "guerre di religione" viene limitata alle guerre combattute in Francia fra il partito cattolico, che, in massima, sino agli ultimi anni di Enrico III è solidale con la monarchia, e il partito calvinista; e in questo caso, oltreché una limitazione spaziale, si ha anche una limitazione cronologica, non potendosi parlare di guerre di religione per il periodo successivo alla concessione, da parte di Enrico IV, dell'editto di Nantes (1598) che vuol essere appunto l'atto di pacificazione del conflitto religioso». Ci pensavo ieri, leggendo il lucido editoriale di un autore che cito spesso, Pierluigi Battista. In modo ispido, sul "Corriere della Sera", ha scritto senza troppi giri di parole: «Ma come, dicono stupefatti dopo l'attentato di Stoccolma, perché colpiscono la Svezia con quel modello di integrazione avanzata, quel Welfare che funziona, con un grado di benessere sociale che dovrebbe attutire ogni pulsione violenta? E certo, ci si stupisce perché davvero non si riesce a uscire dal rassicurante ritornello secondo cui "la religione non c'entra" (non c’entra nemmeno in Egitto, dove fanno strage nelle chiese copte nella Domenica delle Palme?), come se il terrore jihadista fosse riconducibile alle categorie più note e collaudate, come se fosse un prolungamento in versione ventunesimo secolo della lotta di classe, una protesta contro la diseguaglianza che solo per una trascurabile differenza ha scelto di usare come suo manuale ideologico il Corano anziché un testo di Lenin. Come se non riuscissimo a liberarci dalla prigionia di criteri che non spiegano niente ma almeno ci sono più familiari. Perché Stoccolma? E perché Parigi e Dacca, la Nigeria e gli Stati Uniti, Nizza e Londra, un treno regionale in Germania e un museo a Tunisi? Perché Bruxelles e il Pakistan, Tel Aviv e Oslo, il Cairo e San Pietroburgo e Istanbul? Perché una spiaggia o una discoteca, una via elegante dello shopping o uno stadio, un teatro o un bistrot, un ristorante etnico o un aeroporto, un treno o un supermercato, un mercatino natalizio o un ponte? Perché, che c'entra con la protesta sociale, anche violenta, estremista, e forse terrorista nelle sue manifestazioni più oltranziste? A questi "perché" non riusciamo, non vogliamo mai rispondere. Cerchiamo di cancellare la realtà, di attenuarla. Temiamo le conseguenze di ciò che potremmo dire: non perché non siano vere, ma perché sono pericolose. Non riusciamo a concettualizzare una guerra culturale, scatenata contro un intero sistema di vita, al Nord come al Sud, all'Est e all'Ovest, contro i cristiani, gli ebrei e i musulmani di altra confessione, fatta per motivi ideologici e dove questa ideologia si chiama islamismo fondamentalista, radicale, integralista. E le sue armi sono cinture esplosive, coltelli, asce, tritolo, Suv, camion, kalashnikov, gli stessi corpi di chi semina il terrore. Il welfare svedese non c'entra niente e il multiculturalismo inglese non è diverso, per i terroristi, dallo statalismo repubblicano della Francia. Una guerra ideologica, culturale, di religione. Sì, di religione». Può piacerci o meno, ma questa è la vera bomba innescata: una sordida guerra di religione dichiarata contro di noi, che da secoli ormai ci siamo abituati, fra molti alti e bassi, alla libertà di culto come caposaldo costituzionale. Per cui non siamo culturalmente preparati a certa brutalità senza ragione e siamo di conseguenza rassicurati nel divagare per evitare di guardare in faccia la scelta di chi, molto semplicemente, ci vuole cancellare dalla faccia della Terra, perché ci considera schifosi "kafir".