E' del tutto evidente come, allo stato attuale, il "Movimento Cinque Stelle" ruoti ancora attorno alla personalità ed alle decisioni del suo fondatore, Beppe Grillo. Il comico genovese, ormai politico, ha più volte annunciato la decisione di mettersi da parte, per far camminare con le proprie gambe il Movimento da lui fondato ben otto anni fa assieme a Gianroberto Casaleggio (oggi sostituito, dopo la sua morte, dal figlio Davide), ma poi è sempre ritornato su questa sua decisione. Lo si è visto nella recente gestione del delicato "caso Raggi", la sindaca di Roma che si è infilata in una serie di scelte assai discutibili di suoi collaboratori con conseguenze che potrebbero portarla a ricevere un'informazione di garanzia da parte della Magistratura romana. Per questo, al di là di un crescente giudizio negativo sulla sua Amministrazione (per voce anche di autorevoli esponenti romani del suo stesso Movimento), Virginia Raggi è stata (assieme ad un'inchiesta su firme false a Palermo con alcuni esponenti "grillini") la ragione per cui, rispetto alle rigide regole che prevedevano le dimissioni di chi inquisito, Grillo ha scelto un atteggiamento più soft dell'attuale sistema rigido in favore di una linea più garantista, anche se poi nel concreto par di capire che saranno lui e il suo entourage a decidere caso per caso.
La posta in gioco non è affatto di poco conto, perché se casca la Raggi si andrebbe alle elezioni comunali nella Capitale in un clima che si farebbe difficile per i pentastellati anche per le elezioni politiche che verranno. Questo cambio di atteggiamento ha avuto due chiavi di lettura opposte: chi ha applaudito alla ragionevolezza della scelta improntata alla "Realpolitik", chi invece ha segnalato l'opportunismo della virata. Tutto deriva, comunque, da quel secco articolo 49 della Costituzione, che resta il faro anche rispetto a successive normative di maggior dettaglio, specie quelle dell'ultimo periodo sugli Statuti dei partiti: "Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Metodo democratico significa sia democrazia interna (e su questo ci sarebbe molto da riflettere e non solo sui "Cinque Stelle") che utilizzo delle regole democratiche nella propria azione esterna. Inutile dire come uno dei nodi maggiormente discussi nella storia della Repubblica, ma questo vale in tutta la storia dell'Italia dall'Unità in poi, riguardi il rapporto delicato fra Magistratura e Politica. Nel caso in esame soprattutto rispetto a questa storia degli "avvisi di garanzia" (si usa ancora il termine del vecchio Codice, anche se oggi sarebbe appunto "informazione di garanzia"), vale a dire la comunicazione con la quale il Pubblico ministero, durante le indagini preliminari, avvisa l'indagato e la persona offesa del reato per cui sta procedendo, che sta per compiere un atto cui il difensore ha diritto di assistere (cosiddetti atti garantiti). L'avviso contiene l'indicazione del fatto di reato, del luogo in cui è avvenuto e delle norme che si ritengono violate (articolo 369 del codice penale); contiene inoltre l'invito alla nomina di un difensore di fiducia e viene inviato per posta, con lettera con ricevuta di ritorno o attraverso apposita notifica. Si tratta quindi di un atto di trasparenza, che dovrebbe consentire all'imputato ed alla sua difesa di agire. In realtà poi, a seconda di come filtri la notizia, questo atto di garanzia è diventato nel tempo una sorta di condanna già scritta, specie se accompagnata da particolari fatti filtrare ad arte sui giornali, se non discussi in televisione in processi catodici. C'è chi con questo ha visto stroncare carriere politiche. Oltretutto spesso questo informazione di garanzia può arrivare in contemporanea con l'avviso di conclusione delle indagini e questo certo muta quel carattere garantista all'origine della comunicazione a chi diventa imputato a tutti gli effetti in attesa della successiva richiesta, se ci sarà, di rinvio a giudizio. Ma alla fine, con franchezza, non credo che si tratti solo di norme giuridiche e regole interne: ritengo in sostanza che in una democrazia matura, come avviene in molti Paesi del mondo, ci sia qualche cosa che agisce prima e riguarda la propria coscienza, che non dovrebbe essere soggetta a nessun altro che non a sé stessi e alla propria visione etica. Quindi dovrebbe essere il politico per primo a valutare con freddezza la propria situazione ed avere il coraggio di lasciare, senza infilarsi nello slalom delle procedure e dell'elastico troppo facile da tirare della presunzione di innocenza. In più bisognerebbe dire che la riabilitazione, valida per qualunque cittadino, non debba essere una candeggina sbiancante per chi ricopra incarichi pubblici, perché dovrebbe comunque agire la sanzione morale della comunità, senza pensare che il suffragio universale renda linde e pulite le coscienze, che sono altra cosa rispetto al casellario giudiziale.