Non ho mai pensato in vita a mia ad una Valle d'Aosta che sia chiusa a riccio, perché da sempre questo lembo di Alpi è terra di passaggio e come tale non può essere impermeabile al dialogo, ma è sempre stato anche un luogo di accoglienza, come ampiamente dimostrato dal "dare e avere" dei diversi flussi migratori avvenuti nei secoli. La mia famiglia è un caso di questo genere, visto che il mio bisnonno arrivò a metà Ottocento a svolgere il ruolo di Sottoprefetto di Aosta e da allora ci radicammo qui anche attraverso le reti parentali dei rami femminili. Fatta questa premessa, che evita qualunque accusa di grettezza, mi capita ogni tanto di chiedermi come mai per determinate professioni in Valle d'Aosta non ci sia posto per i valdostani, come se agisse una logica quasi "colonialistica", che esclude i residenti da alcuni ruoli di responsabilità.
Poi, scavando, ci sono in certe circostanze delle giustificazioni comprensibili, altre volte invece i meccanismi sono davvero perversi e si sono creati - specie nei ruoli dello Stato e di quello che un tempo si chiamava "Parastato" - delle logiche che, con una formula adoperata spesso, si potrebbe chiamare con un latinismo conventio ad excludendum, cioè un accordo che tende ad escludere. Questo penso sia profondamente sbagliato e prescinde persino da quegli obblighi ormai largamente disattesi nei concorsi che dovrebbero tener conto della lingua francese e della necessaria conoscenza della realtà locale dove si è chiamati ad operare, a meno che non sia solo una porta girevole. Ci pensavo - anche se capisco che il collegamento possa sembrare bizzarro - rispetto ad un ruolo importante per la comunità, quello di Parroco di paese. In questo caso sappiamo bene che la ragione per cui tanti preti arrivano da fuori, ormai anche da Paesi lontani, non è dovuto a chissà quali meccanismi di esclusione, ma alla crisi di vocazioni, un tempo così ampie da avere i Seminari pieni di giovani, mentre oggi la situazione obbliga la Chiesa locale a cercare altrove per coprire le necessità. Eppure proprio ieri riflettevo su come possa capitare ancora di avere la persona giusta al momento e nel luogo opportuni e diventa un esempio significativo di come, senza nulla togliere a chi arriva dall'esterno e si sforza di interpretare la realtà locale, una certa conoscenza, direi osmosi, consente di adeguarsi con più facilità a determinate situazioni. C'ero anch'io domenica al Breuil-Cervinia (so che per esigenze di marketing turistico qualcuno vorrebbe togliere "Breuil", vi prego non fatelo!) in quella chiesetta dove si sono celebrati i funerali di Gérard Ottavio e Joël Déanoz, morti la settimana scorsa lungo la "via Deffeyes" (così dal nome del grande politico ed alpinista Albert Deffeyes, morto anche lui troppo giovane, che la salì con Louis Carrel) sulla "parete Sud" del Cervino, da cui sarebbero precipitati per una probabile scarica di sassi, che rendono per la fragilità della parete assai pericolosa quella zona. A celebrare la Messa, in un clima di generale commozione, è stato il parroco di Valtournenche, don Paolo Papone, nato ad Aosta nel 1961, ordinato presbitero il 7 settembre 1987, licenziato in Sacra Scrittura al "Pontificio Istituto Biblico" di Roma, ma soprattutto votornen d'adozione e guida alpina onoraria. Giunse nella vallata dieci anni fa e - sportivo ed alpinista qual è - quella scelta fatta dall'allora vescovo Giuseppe Anfossi appare davvero un caso in cui nessuno meglio di lui avrebbe potuto esercitare questo apostolato nella comunità all'ombra del Cervino. La sua forte emozione nel corso della funzione religiosa e l'incredibile empatia creata nel corso dell'omelia sono state il segno tangibile di come, in certe occasioni, per trovare le parole giuste ed esprimere sentimenti profondi e condivisibili bisogna avere conoscenza dei luoghi, delle circostanze e delle persone - oltreché un notevole bagaglio culturale - per evitare di cadere nelle possibili banalità. Paolo conosceva bene i due giovani con cui era stato in montagna e con cui aveva discusso, come ha ricordato, dei problemi religiosi, su cui ha costruito per altro le difficili motivazioni della sua predica a consolazione di tutto quel dolore che si respirava come l'aria fra le centinaia e centinaia di persone presenti alle esequie, come sbigottiti dagli eventi. Questa logica di Fede, che è stata contrapposta alla capricciosità di chi crede nel solo Destino, ha colpito tutti al cuore, perché accompagnata da una pietas sincera, che gli faceva tremare la voce e solo nervi saldi gli hanno impedito di cedere al pianto, quanto invece è avvenuto per la gran parte delle persone che erano lì, me compreso. Specie quando, a chiusura, le voci della moglie di Gérard, che lascia tre bimbi piccoli, della mamma di Joël, che perse nel 1984 il marito sotto una valanga nella stessa zona, del papà di Gérard, con la voce sussurrante in un afflato di speranza, hanno percorso la folla come una scossa elettrica, pensando a quanto amore ci vuole davvero per reggere il peso di certe morti. Ma il collante, con la sua voce pacata e la scelta esatta di ogni aggettivo con la stessa meticolosità con cui immagino scelga gli appigli sulla roccia, è stato don Papone, che da una tragedia ha saputo ricavare messaggi importanti per noi che restiamo. Il Cervino, in questo pomeriggio di strazio, è stato sempre coperto da nuvole basse e solo un leggero nevischio all'uscita delle bare è stato come un segno lieve, così come lo erano quei due uccellini che giocavano rincorrendosi sul piccolo tettuccio in lose che ripara l'entrata della chiesetta. A me è venuto in mente quel frammento di Menandro «Muor giovane colui ch'al cielo è caro», citazione fatta da Giacomo Leopardi come epigrafe della sua emozionante "Amore e morte".