Confesso che su "equinozio" e "solstizio" sono sempre sul chi vive, nel senso che non riesco mai a combinare la definizione giusta dell'appuntamento astronomico con le stagioni corrispondenti. Ricapitolo per venire al punto: il "solstizio" è l'istante e punto dell'eclittica in cui il Sole, due volte all'anno, si trova alla massima distanza dall'equatore celeste. C'è il "solstizio d'estate" il 21 o 22 giugno, l'altro è il "solstizio d'inverno", il 21 o 22 dicembre. Mentre l'equinozio è l'istante in cui il Sole, muovendosi sull'eclittica, si trova esattamente sull'equatore, cioè a uno dei due nodi della sua orbita rispetto all'equatore celeste. Dunque l'"equinozio di primavera", il 20 marzo e l'"equinozio d'autunno", il 22 o 23 settembre.
Sappiamo bene che non tutti questi appuntamenti sono da tutti noi equamente considerati. Il numero uno indubitabile, per l'ansia della bella stagione, è l'arrivo della primavera, mentre il solstizio d'estate - come ho già avuto modo di segnalare - mette il sorriso ma nasconde la fregatura che da lì in poi le giornate si accorciano! In un vago disinteresse appare l'inverno, spodestato dall'imminente Natale che ha un potere magnetico per attirare le nostre attese, ma il fanalino di coda è l'equinozio d'autunno, appena passato, nel totale disinteresse. La pecora nera, insomma. Se chi studia l'etimologia ci ha preso nel ricostruirne le origine la stagione si chiama così perché, venendo dal latino "autŭmnus", veniva ricondotto ad "augēre - accrescere", di cui sarebbe un antico participio, in quanto era la stagione di maggior abbondanza, in cui si godeva del raccolto. Questa spiegazione - dice l'Etimologico - nonostante il sospetto di essere un'etimologia popolare, è confortata dal caso analogo del tedesco antico "herbist - stagione della raccolta" (in tedesco "herbst" è "autunno"). Vi è in questa scarsa del passaggio considerazione qualcosa di ingiusto, specie nelle prime settimane d'autunno, quando la natura piano piano si trasfigura. Solo novembre è per me così plumbeo e scuro da darmi la voglia ogni volta di fuggire alla ricerca del sole.
Guillaume Apollinaire, in alcuni sui versi dà il senso della bellezza e dell'intensità dell'autunno: «Et que j'aime ô saison que j'aime tes rumeurs Les fruits tombant sans qu'on les cueille Le vent et la forêt qui pleurent Toutes leurs larmes en automne feuille à feuille Les feuilles Qu'on foule Un train Qui roule La vie S'écoule».
"L'Automne" torna anche nei versi straordinari di Jacques Prévert: «Un cheval s'écroule au milieu d'une allée Les feuilles tombent sur lui Notre amour frissone Et le soleil aussi».
Ma in fondo è Vincenzo Caldarelli che descrive lo choc del "dopo estate": «Autunno. Già lo sentimmo venire nel vento d'agosto, nelle pioggie di settembre torrenziali e piangenti e un brivido percorse la terra che ora, nuda e triste, accoglie un sole smarrito. Ora che passa e declina, in quest'autunno che incede con lentezza indicibile, il miglior tempo della nostra vita e lungamente ci dice addio».
Ma anche il francoprovenzale è lingua poetica. Così Anaîs Ronc-Désaymonet: «Dz'é vu vaoulatté, su pe l'air Ah! la première foille dzana Poué rebatté, bà pe la plana Et s'arrété i cu d'un boueisson: L'est lo signal que veun l'Aouton...».
L'autunno per me, con semplicità, è un insieme unico di colori e quel senso di un'alta montagna che è nei giorni di bel tempo svettante nella sua potente rudezza, mentre con il maltempo diventa una Natura come non mai nostalgica.