La morte di Elie Wiesel, dopo quella drammatica di Primo Levi tanti anni fa, ci priva di uno dei testimoni più efficaci - attraverso i suoi libri - della tragedia della "Shoah". Ho riletto in queste ore di dispiacere per la sua scomparsa, durante un viaggio aereo, il suo "La Nuit", un romanzo autobiografico che racconta con cruda consapevolezza le sue esperienze di giovane ebreo - aveva solo sedici anni - deportato insieme alla famiglia nei campi di concentramento di Auschwitz e Buchenwald. Questo libro uscì negli anni Cinquanta, dopo un decennio di silenzio-rimozione per sua scelta dell'esperienza terribile in un lager (vide la morte del papà, massacrato di botte), prima scritto in yiddish in una versione più lunga di quella successiva in francese, che lo fece conoscere al mondo.
Nell'ultima edizione c'è una sua prefazione che così si conclude, come un testamento che illumina sulle ragioni per cui tornò più volte su quei passaggi decisivi della sua vita: «L'oubli signifierait danger et insulte. Oublier les morts serait les tuer une deuxième fois. Et si, les tueurs et leurs complices exceptés, nul n'est responsable de leur première mort, nous le sommes de la seconde. Parfois l'on me demande si je connais "la réponse à Auschwitz"; je réponds que je ne la connais pas; je ne sais même pas si une tragédie de cette ampleur possède une réponse. Mais je sais qu'il y a "réponse" dans responsabilité. Lorsqu'on parle de cette époque de malédiction et de ténèbres, si proche et si lointaine, "responsabilité" est le mot clé. Si le témoin s'est fait violence et a choisi de témoigner, c'est pour les jeunes d'aujourd'hui, pour les enfants qui n'aîtront demain: il ne veut pas que son passé devienne leur avenir». Un pensiero a chi ci ha ricordato il Male e evocato la necessità di non essere mai degli indifferenti.