Gira che ti rigira resta irrisolto il tema drammatico della morte, quando colpisce d'improvviso e crudelmente, stroncando delle giovani vite. Perché in fondo ha ragione Marcel Proust quando ricorda: «Nous disons la mort pour simplifier, mais il y en a presque autant que de personnes». Per dire che le morti, ad essere onesti, non sono tutte uguali, specie per chi resta, meno per chi la subisce. Mi metto con partecipazione nei panni di quei genitori che hanno perso le loro ragazze nel tragico incidente stradale sull'autostrada fra Valencia e Barcellona. La causa è stata probabilmente un colpo di sonno dell'autista, alle sei del mattino, mentre il gruppo rientrava, dopo avere assistito al momento clou delle "Fallas", la famosa festa di primavera della capitale valenciana. Era un gruppo di ragazze di "Erasmus" e questo fa capire il perché della provenienze multinazionale, anche se il colpo più duro - sette su tredici - ha riguardato le studentesse italiane.
La "generazione Erasmus" nasce nel 1987 da una grande intuizione comunitaria e se è vero che è un acronimo, che sta per "European Region Action Scheme for the Mobility of University Students", ricorda anche Erasmo da Rotterdam e il suo peregrinare per l'Europa per conoscere le diverse culture. Ed è quanto era alla base di questo programma di mobilità studentesca, allargatosi nel tempo anche ad Università extraeuropee. Si è trattato di uno strumento utilissimo, come ho potuto constatare con generazioni di universitari valdostani che si sono aperti la mente stando per alcuni mesi in un'Università europea, inviati dal loro Ateneo. Si tratta di una possibilità per conoscere e per mettersi alla prova rispetto al rischio di "nido caldo" in cui troppo spesso giacciono i nostri figli. Quando ero presidente dell'Università della Valle d'Aosta, ero sinceramente dispiaciuto quando capitava che non si trovassero ragazzi disponibili per degli "Erasmus", che avrebbero consentito loro di fare esperienze nuove e arricchenti. Invece la chiave dell'integrazione europea sta proprio nella necessità di conoscersi e scambiare esperienze e vivere legami di studio e di amicizia. Ed è quanto stavano facendo le giovani che si sono infine trovate su quel maledetto pullman. Perché? Questo immagino sarà il rovello delle famiglie delle scomparse, che hanno dovuto nelle scorse ore vivere l'angoscia del l'attesa e lo stillicidio delle notizie. Se pensiamo appunto che l'incidente è avvenuto all'alba di domenica e purtroppo solo la sera tardi si è saputo quanto il caso avesse colpito dolorosamente l'Italia e questi senza ancora vi fosse stata l'identificazione delle povere vittime. Nella giornata di ieri abbiamo saputo anzitutto del ritardo registratosi nei soccorsi e poi soprattutto sono stati resi noti i nomi dei morti e abbiamo visto anche i loro volti, quanto oggi è facile da ottenere - come si è evidenziato anche questa volta - per un cronista, essendo sufficiente cercare le loro presenze sui Social, dove ormai tutti vivono virtualmente e persino sopravvivono dopo di loro, visto che "Facebook" è diventato il più grande cimitero del mondo, benché in Rete. Serena, Valentina, Elena, Elisa, Elisa, Francesca, Lucrezia: la loro morte colpisce e addolora, pensando alla loro giovinezza e alla scontata voglia di vivere ben visibile su alcuni dei loro profili, stroncata in mezzo alle lamiere. Non c'è davvero altro da dire, se non citare Plutarco: «La morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto». E ricordare anche come Papa Francesco, senza troppo filosofeggiare, abbia parlato testualmente di «perdita irreparabile». Come dicevamo all'inizio, la morte sarà "'a livella", come sosteneva Totò nella sua celebre poesia in napoletano, ma poi sappiamo bene che il catalogo è vario, pur in presenza di un esito monocorde.