Le volte in cui mi è capitato di incontrare in Valle d'Aosta Mogol (nome d'arte di Giulio Rapetti) non ho mai avuto modo di esternare la mia viva ammirazione per il suo lavoro di cesello linguistico in canzoni memorabili. Cominciando dal fecondo lavoro con Lucio Battisti, avrei potuto cantare - senza sbagliare strofe - brani indimenticabili e senza tempo, come devono essere i classici, ed è il caso di "Balla Linda", di "Un'avventura", per non dire - evitando di citarle tutte - di "Acqua azzurra, acqua chiara" o "Mi ritorni in mente". Ma avrei potuto ricordare (e per sua sfortuna cantare) "Perdono" di Caterina Caselli, "Io ho in mente te" dell'"Equipe 84", "A chi" di Fausto Leali, "Riderà" di Little Tony.
I miei figli più grandi hanno fatto incetta di quei 45 giri d'antan, pur in assenza di un giradischi, ma visto il ritorno del vinile penso che fra qualche tempo potranno anche - come si diceva una volta - "suonarli" ed avranno su di loro lo stesso effetto che avevano i 78 giri che ascoltavo da bambino a casa del mio coscritto ed amico Adriano Balma...
Sarà perché mi piacciono le parole e amo molto le frasi delle canzoni, che ho ascoltato e risentito dopo il "Festival" quanto proposto a Sanremo e lascio a chi è più competente un'analisi sullo stato della canzone italiana, che mi sembra talvolta simile al campionato di calcio con un eccesso di stranieri che deprime gli Azzurri, ed analogo fenomeno mi pare subire la produzione musicale. Ma la classifica finale mi convince poco, perché nel panorama dei cantanti presenti alla fine è stata fatta - e per generazione dovrei esserne in fondo contento - su brani molto tradizionali, premiando al vertice un gruppo come gli "Stadio" che sono un pochino più vecchi di me, ma certo espressione artistica del passato. Mentre "Sanremo", che fa bene a giocare sull'effetto nostalgia, di cui l'inossidabile Cristina D'Avena è davvero il simbolo con le sue canzoncine legate ai cartoni del passato, dovrebbe anche spiegare le ali verso nuovi lidi.
Ma, riguardando ancora l'esibizione sul palco degli "Stadio" con tanto di filmato emotivo con immagini di una bimba, confesso - anche con lettura a tavolino del testo - di non avere capito dove volesse parare questo brano sulla paternità, che pure alla fine raggiunge un certo pathos emotivo. Ma questo papà che ha fatto?
Ecco a voi - come si direbbe una presentazione da "Ariston" - il brano appena citato (testo di Saverio Grandi, Gaetano Curreri e Luca Chiaravalli, musica di Saverio Grandi, edizioni "Curci/Music Union/Giamaica" Milano Bologna):
"Un giorno ti dirò
Che ho rinunciato alla mia felicità per te
E tu riderai, riderai, tu riderai di me
Un giorno ti dirò
Che ti volevo bene più di me
E tu riderai, riderai, tu riderai di me
E mi dirai che un padre
Non deve piangere mai
Non deve piangere mai
E mi dirai che un uomo
Deve sapere difendersi…
Un giorno ti dirò
Che ho rinunciato agli occhi suoi per te
E tu non capirai, e mi chiederai… "perché"?
E mi dirai che un padre
Non deve piangere mai
Non deve arrendersi mai
Tu mi dirai che un uomo
Deve sapere proteggersi…
Un giorno mi dirai
Che un uomo ti ha lasciata e che non sai
Più come fare a respirare, a continuare a vivere
Io ti dirò che un uomo
Può anche sbagliare lo sai
Si può sbagliare lo sai
Ma che se era vero amore
E' stato meglio comunque viverlo
Ma tu non mi ascolterai
Già so che tu non mi capirai
E non mi crederai
Piangendo tu
Mi stringerai".
Dunque? Boh! Quale problematica nel rapporto familiare descrive questo testo? Francamente sono imbarazzato e manco, assai probabilmente, di comprendonio. E forse in certe situazioni i parolieri badano più alla forma e al risultato che all'intellegibilità del testo. Per cui spero di essere prima o poi illuminato, anche se penso di potermene fare una ragione...
P.S.: a me e capitato di piangere davanti ai miei figli e non c'è nulla di male a mostrare i propri sentimenti.