Sono andato anch'io ad inizio anno a vedere "Quo vado", il film di Checco Zalone, che ha fatto un successo travolgente. Non ne ho scritto subito l'indomani perché non avevo le idee molte chiare e, dovessi dirla fino in fondo, mi spiaceva essere anticonformista - già mi capita troppo spesso di esserlo - e dire subito, a caldo, di essere stato un pochino deluso rispetto alle mie aspettative. Ed uso il termine "pochino" perché un film di svago deve restare tale, perché penso che lo stesso comico barese sia il primo ad avere un senso autoironico, anche se un successo di questa portata rischia di travolgere chiunque. Ho notato che nella sala stracolma di gente si è riso abbastanza, ma meno di quanto fosse avvenuto nei suoi film precedenti e mi pare che questo sia un segnale più significativo di molti ragionamenti dei critici che si sono espressi, come è giusto che avvenisse, sui contenuti della pellicola, ma anche sul perché del successo.
Per altro, è vero che questa volta, trattandosi appunto di un fenomeno sociale, ad esprimersi non sono stati solo i critici cinematografici, ma anche editorialisti in genere più impegnati in commenti politici che di costume. Matteo Renzi, proprio nel cinema di Courmayeur, ha visto il film appena uscito e, facendosi scudo del giudizio entusiastico del film dei suoi figli, lo ha infilato nel cassetto del suo #cambioverso, mentre altri hanno annotato come - scava scava - forse la storia non è da ascrivere fra quelle filogovernative. A me sembra che la verità stia nel mezzo, nel senso che Zalone piglia per il sedere sia il vecchio della Politica che il nuovismo della Politica e non a caso la storia ruota attorno ad una delle questioni più comiche della politica renziana: l'abolizione delle Province (su cui, nel solco di Luigi Einaudi, io sono sempre stato d'accordo), che è stata fatta per risparmiare più che per un vero disegno istituzionale (Einaudi era per un rafforzamento delle Regioni, mentre Renzi vuole valorizzare i Comuni in un disegno centralista che ruota sul "divide et impera" del sistema autonomistico e con le Regioni come soggetti di poco conto), ma con una formula tale che di fatto ha accresciuto i costi con un avvitamento degno davvero di grandi risate. Zalone, semmai, dimostra uno spostamento della comicità sempre più al Sud e non lo dico come giudizio di valore, perché sarebbe ridicolo, ma come constatazione di un segno dei tempi che i politologi e gli economisti hanno analizzato a fondo (avevo già consigliato la lettura del libro di Emanuele Felice "Perché il Sud è rimasto indietro"). Certa disperazione sagace e agra che viene dal Mezzogiorno ormai è una cifra per l'Italia intera, che sembra infine dappertutto essere avvinta da problemi atavici che il Sud conosce bene e che si sono diffusi, piuttosto che scalare parametri e comportamenti più europei. In questo il film è davvero un prodotto "Made in Puglia", a differenza ad esempio dei racconti dei film di Alberto Sordi (sua la frase: «Quando se scherza bisogna esse seri»), che erano centrati su Roma come simbolo di un'epoca, ma principalmente costruiti in questa forma di commedia all'italiana da un autore bellunese, ma formato anche a Torino, che fu il misconosciuto - al pubblico e certo non ai cinéphiles, anche grazie ad un bel libro su di lui di Tatti Sanguineti - sceneggiatore Rodolfo Sonego. Anzi, a ben pensarci il paradosso di "Quo Vado" sta nella sostanziale ed ovviamente grottesca assoluzione di un protagonista che si trova, per le vicissitudini del film per storie di ordinaria burocrazia della "spending review", a vivere nella civilissima Norvegia e cerca di assorbirne il civismo, forse noioso e grigio come la Natura nordica, ma personalmente credo che sia un modello con spunti interessanti rispetto a certi vizi italiani. Tuttavia, alla fine, stufo di norme e regole che impediscono anche minute trasgressioni (tipo saltare le code o suonare il clacson ai semafori), Zalone - in un guizzo che sa di ribellione - torna alle sue abitudini, meno urbane ed educate ma più vitali, impersonando dunque - con ironia e pure sarcasmo - la maschera magistrale di quello che oggi va considerato come l'italiano medio. Per cui, come sempre nella storia della comicità sin dal passato più lontano, si ride della propria stupidità, considerandola in capo ad altri e non a noi stessi, assolvendoci.