Il primo atto, in un'Assemblea parlamentare, è la nomina del presidente. E' un caso in cui, con chiarezza, la forma diventa sostanza. Chi presiede ha un compito delicato: deve sapersi spogliare della propria appartenenza politica e assumere una veste super partes, che gli consenta con garbo istituzionale di adempiere a tutti i suoi doveri. Il presidente può essere, come ho visto nella mia esperienza parlamentare a Roma, espressione della maggioranza o dell'opposizione o può essere, come nel Parlamento europeo, a rotazione fra i gruppi più grandi, a tutela anche delle minoranze. Per questo non mi convince questo continuo rinvio nell'elezione del presidente del Consiglio Valle, dopo parecchio tempo dalle dimissioni dalla sua carica di Marco Viérin. Non sono così ingenuo da non comprenderne le ragioni. Si aspettano le sentenze sui costi della politica, che sono un passaggio significativo e ben si sa che le posizioni degli imputati non sono tutte uguali. E poi esiste questa situazione kafkiana che rende confuso il quadro. Perché, alla fine, ci sarebbero solo tre soluzioni.
La prima, in linea con questa Legislatura, sarebbe che la maggioranza risicata in Consiglio - diciotto a diciassette - si votasse il proprio presidente. La seconda è che si trovi una soluzione di condivisione fra maggioranza ed opposizione su un nome comune: ma, per farlo, bisognerebbe vedersi. La terza è che, motu proprio, la maggioranza scelga qualcuno della minoranza nel solco di un avvicinamento politico e sarebbe il caso di una Presidenza del Partito Democratico che prosegua quel "fil rouge" iniziato con l'accordo politico ad Aosta, a mio avviso preparato da lungo tempo e non frutto improvviso degli astri. La mancata elezione del presidente è un vulnus per il Consiglio Valle su cui è bene riflettere e chi scarica sulla minoranza le responsabilità fa il gioco delle tre tavolette. Sono un vecchio fautore della democrazia parlamentare, avendola vissuta in profondità. E so bene come - senza scomodare Montesquieu ed il suo profetico "équilibre des différents pouvoirs" - il rapporto fra Assemblea e potere esecutivo sia ancora oggi, nella modernità, uno dei temi cardine su cui si basa il destino della democrazia. La recente riforma costituzionale in Italia, il cui iter è in pieno corso, è un esempio tangibile di come la lancetta si stia spostando in due modi: verso il centro con un ritorno di fiamma dello statalismo e un'evidente rafforzamento dei poteri del Governo su di un Parlamento dimezzato con una Camera dei Deputati al guinzaglio (anche con un "Italicum" che premia "nominati" e dai partiti non eletti scelti dal popolo) ed un Senato ridotto a Camera accessoria. Molti sono preoccupati a parole da questa deriva, ma in troppi la subiscono, ad esempio con un ipocrita voto a favore, come ha fatto quella parte barricadiera del PD, che ad ogni passaggio decisivo cala le braghe. Questo stesso interrogativo riguarda il Consiglio Valle e l'impressione di una sua qual certa inutilità in Valle d’Aosta per un potere sempre più marcato della Presidenza della Regione, che pare persino in una fase di espansione manovriera, e ciò appare ancora più grottesco a fronte della palpabile crisi della nostra Autonomia speciale. Non mi riferisco solo al progressivo impoverimento della nostra comunità e alla logica di risparmio applicata al welfare valdostano che rischia di colpire alla cieca, ma ciò riguarda proprio le Istituzioni e dunque il caposaldo di quel sistema di ordinamento valdostano, costruito dal 1945 ad oggi. Che ci fosse nella prassi applicativa qualche rischio di cesarismo nella figura del presidente della Valle appare evidente dalla storia così come la conosciamo. Ma certi picchi non sono mai stati raggiunti e l'indebolimento dell'immagine del Consiglio, come si manifesta oggi, appare, se non proprio far parte di un disegno preordinato, come una deriva triste e pericolosa. Il rischio è quello che l'opinione pubblica - almeno quella che resta ancora viva e non distante o distratta - finisca per fare di tutta un'erba un fascio e ritenere che la stessa Autonomia speciale sia una specie di "vuoto a perdere". Mi ribello a questa rappresentazione e mi auguro che si allarghi il numero di chi non ci sta e che sia fatta finalmente chiarezza sui ruoli rispettivi. Perché, malgrado gli sforzi, non si può pensare che ci sia chi proclama il metodo del dialogo ma poi non lo pratica e chi, forse peggio ancora, tenta l'esercizio mirabile ma infruttuoso di tenere il piede in due scarpe. Pare, infatti, che risulti difficile camminare in questo modo.