Una costante per chi si occupi della salvaguardia delle zone di montagna in Italia sono gli uffici postali e il loro destino sempre declinante in barba alle dichiarazioni ufficiali dei vertici. Il punto di partenza è noto. Ne scriveva un'ottima sintesi su "La Stampa", Rosaria Talarico, tre anni fa, quando le "Poste italiane" iniziarono i festeggiamenti per i propri 150 anni: «tutto inizia con le "Regie Poste" nel 1862, istituzione in cui confluiscono le amministrazioni postali degli Stati preunitari. Tre i principi basilari: il concetto di servizio pubblico, l'inviolabilità delle lettere e la tariffa unica, realizzata con l'adozione del francobollo, in base al peso e non alla distanza. Nella nostra Penisola il francobollo venne introdotto nel 1850, mentre nel 1874 nasce in Italia la cartolina postale, seguita dalla cartolina illustrata e pochi anni dopo, nel 1881 è istituito il servizio dei pacchi postali».
Roba antica, insomma: la nascente Italia afferma la propria presenza sul territorio con la Posta e le caserme dei Carabinieri. Credo, tra l'altro, che mai nessuno abbia scritto delle "Poste" in Valle d'Aosta, ma il fatto certo è che, negli anni d'oro, la capillarità della presenza degli sportelli postali era stata molto significativa, come un presidio rassicurante per i cittadini ed un vantaggio anche per le "Poste", se pensiamo a che cosa sia stato anche da noi il risparmio postale, che ancora oggi alimenta la plurima e inquietante presenza della "Cassa Depositi e Prestiti". Poi, negli anni, la situazione è andata peggiorando con diminuzione degli organici, spostamento dei centri decisionali fuori dalla Valle, soppressione di uffici, riduzione degli orari ed un generale peggioramento dei servizi erogati. Uno stillicidio cui ho assistito nel corso della mia attività parlamentare. A livello nazionale, pur mantenendo lo Stato (e alcuni sindacati...), il controllo assoluto sulle "Poste", si è passati da amministrazione autonoma, ad Ente pubblico economico e poi a Società per azioni. Morale, per le zone di montagna come la Valle d'Aosta, la filosofia imperante, nascondendosi dietro ad una privatizzazione sempre rinviata, era del genere: ormai siamo nel mercato e dunque dobbiamo sfruttare i business redditizi, per cui o le autonomie locali compartecipano in qualche modo (affitti, riscaldamento, fornitura servizi, convenzionamenti) o riduciamo e chiudiamo laddove non si guadagnano soldoni. Questo atteggiamento non tiene conto né dei rischi di non ottemperanza ai limiti agli aiuti di Stato e neppure del fatto che - l'ho fatto scrivere nei documenti ufficiali sia in Italia che in Europa - vi siano per le zone montane degli obblighi di servizio universale, cioè quel "nocciolo duro" di servizi considerati di pubblica utilità, che sono da rispettare. Ma chi controlla che il servizio universale, per il quale non sia possibile l'equilibrio economico, ma che va garantito a tutte le comunità (anche con meccanismi di compensazione finanziaria pubblica) non venga disatteso? Oggi dovrebbe farlo la "AgCom - Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni", che aveva garantito anche di recente la tutela delle zone montane, ma per ora si aspetta che ad azione segua reazione delle "Poste". Ma per il momento, purtroppo, ci si trova con un fiore i cui petali vengono tolti uno ad uno nel nome della redditività, dell'efficienza e degli affari. Ora si aggira un piano di riorganizzazione (si usa anche il termine "razionalizzazione", che fa paura solo a pronunciarlo), che dovrebbe scattare a partire da metà aprile. Si tratta di fatto di un piano di regressione nelle zone considerate marginali, mentre nelle zone redditizie le "Poste" inseguono la commercializzazione dei prodotti più vari sino a sfiorare ormai il ridicolo. Insomma, lo Stato crea figli e figliastri ed i montanari sono fra i cittadini "bollati" come fossero di "serie B", perché considerati - sic! - costosi e non redditizi. Poi, naturalmente, quando c'è un bel convegno sulla montagna e sulla necessità di evitare diseguaglianze fra i cittadini, sono tutti bravi a dire il contrario.