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22 feb 2015

Cosa fare con la Libia?

di Luciano Caveri

Quando oggi sento parlare della Libia - e temo che la questione resterà in primissimo piano per mesi - mi si accendono due lampadine nella testa. La prima, del tutto personale ma credo moltiplicabile per molti altri, riguarda l'aspetto evocativo e di memoria di quei luoghi della guerra di Libia, dove operò - credo dal 1912 - il mio nonno materno, Emilio Timo, ufficiale di Cavalleria. Ricordo da bambino nomi come Tobruch e Bengasi, Tripolitania e Cirenaica e poi una foto, di cui il nonno era fierissimo, in cui lo si vedeva impegnato in una battaglia in prima fila con i cavalli al galoppo. Erano storie personali che si mischiavano con le ambizioni coloniali, sempre finite male, dell'Italia o, come si disse ironicamente in certi passaggi, dell'Italietta. L'altra ben diversa - e del tutto bonaria e pacifica - era l'idea che mi era sempre frullata per la testa di visitare prima o poi quelle coste mediterranee della Libia, di cui si dicevano meraviglie, perché incontaminate e con vestigia incredibili della stratificazione di culture - egizi, fenici, greci, romani - che si erano succedute in quei luoghi. Ma Mu'ammar Gheddafi aveva chiuso le porte con una dittatura quarantennale, che oggi qualcuno stoltamente rimpiange perché stabilizzante, come se la Storia si scrivesse con i "se" e con i "ma" e non si dovesse sempre fare i con gli aspetti fattuali della geopolitica e i balbettii del diritto internazionale.

E' vero che, dopo il regime totalitario di quello che - ed era già tutto un programma - si definiva "Guida e Comandante della Rivoluzione della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista", la Libia è diventata uno spezzatino con guerre tribali che ne hanno spezzato ogni rappresentanza unitaria e avviata verso i rischi di balcanizzazione. E' ora di svegliarsi perché di questo caravanserraglio politico fanno parte pure quelle carogne degli estremisti islamici. Oggi conviene, dunque, prendere atto degli errori e delle goffaggini di noi occidentali e trovare, senza troppo tentennare, le forme d'azione più consone per evitare che a poche centinaia di chilometri dall'Italia e dunque dall'Europa ci siano non solo le basi logistiche dei barconi dei disperati scaricati sulle nostre coste in modo sempre più strumentale, ma soprattutto dei delinquenti sanguinari dell'Isis - destinati ad aumentare - che non vedono l'ora di tagliarci la testa. Vorrei dire quel che penso. La politica estera è una materia delicata e bisogna muoversi con grande circospezione ed evitare gaffes colossali sempre possibili. Per altro bisogna rendersi conto che contro lo Stato Islamico e le sue propaggini (comprese le bande formatesi nei nostri Paesi e i "lupi solitari" a Parigi come a Copenaghen) non esistono buonismi o trattative e neppure la speranza di circoscrivere un fenomeno che è virale. Chi parla di diplomazia fa bene, ma nel senso di tessere alleanze necessarie per far fuori certi criminali assassini con i quali posizioni pacifiste o neutraliste non funzionano, come dimostrato dagli imbecilli - pur in buona fede - che minimizzarono il ruolo della Germania nazista e di quel matto di Adolf Hitler, che aveva soggiogato un popolo intero con le sue farneticazioni. Sono finiti per essere fautori e complici dei ritardi che permisero al dittatore nazista di occupare quasi tutta l'Europa. Mostrarsi disponibili e morbidi vuol dire solo, tornando al nemico alle porte, consentire loro di crescere e di fare proseliti. Certo per sgonfiare i pericoli non bastano le armi, ma ci vuole il coraggio di agire sulle molte cause che spingono tante persone a scegliere la strada del fanatismo. In primis ci devono pensare quelli che professano la fede nell'Islam. Che ruolo deve avere l'Italia? Che debba avere un'attività di stimolo per la vicinanza delle minacce è ovvio, ma che debba essere anche capofila di azioni belliche - rispetto alle quali non vedo alternative - è assai dubbio, perché sono ancora vive nelle vicende storiche certe vergogne del periodo coloniale e poi del regime fascista e delle sue "prodezze" per non dire dei rapporti ambigui con Gheddafi, esaltato in certi passaggi ancora recenti come se si fosse trattato di uno statista illuminato e non di un despota matto da legare. Resta, come dicevo, il fattore tempo e - esatto contrario - il raziocinio per non sbagliare. Due corni dello stesso problema che fanno tremare i polsi, mentre i jihadisti si organizzano per fare dell'Italia l'avamposto della loro guerra "santa". Roba da avere paura.