La parola "gìta" risale al XIV secolo e ha un significato ben noto di "lunga passeggiata o breve viaggio, a scopo turistico o ricreativo" ed è il participio passato di "gire", cioè "andare". Mentre la definizione "gitànte" risale alla fine dell'Ottocento, quando la pratica ha iniziato lentamente ad affermarsi a strati crescenti della popolazione. "Andare in gita" pare oggi espressione in disuso, sostituita da un terribile parto della modernità "ho fatto una vacanzina", come se la gita fosse un retaggio dopolavoristico o da scolaresca di cui ci si possa vergognare. Odio l'emancipazione fittizia del linguaggio, che usa il diserbante sulle parole ritenute non all'altezza di un lessico da birignao. A me, invece, la gita piace. L'uso più antico che ricordi è la gita in montagna a piedi con lo zaino sulle spalle e il rito straordinario del pranzo al sacco. Ma, naturalmente, segue la gita scolastica, in un'epoca in cui la gita era parte integrante sin dalle elementari di una logica educativa, che prevedeva a tappe concentriche sempre più vaste una sorta di esercizio di autonomia infantile e poi giovanile. Non era come oggi un esercizio in via di scomparsa con la scusa della mancanza di risorse economiche, che cela invece la preoccupazione degli insegnanti per le responsabilità penali e civili crescenti con l'aumento dell'età degli allievi a fronte di genitori ormai sindacalisti dei propri figli anche di fronte ai comportamenti più maleducati e assurdi. Io ricordo con gioia le gite scolastiche: da quelle piccole escursioni in pullman ai laghi piemontesi o lombardi a viaggetti sino al museo egizio di Torino o al mare in Liguria sino ai classici Siena o Firenze e ho persino nel mio carnet una spassosa Parigi negli ultimi mesi del Liceo classico. Ma la vera gita è quella automobilistica. Figlio, come sono, del boom motoristico degli anni Cinquanta del secolo scorso sono intriso della cultura della gita con la macchina. Mi arrivano dal passato immagini domenicali con tappa nelle vallate valdostane meno note, viaggi in Svizzera o in Francia attraverso i trafori appena aperti, le grandi città vicine come mete lungo le autostrade neonate con i grill "Pavesi" come luoghi cult di sosta. Poi naturalmente le "mie" gite, prima con il cinquantino, poi con la "Vespa 125" e poi con le auto susseguitesi nel tempo. Gite "maschili" con gli amici, gite con la "compagnia", poi con le "morose" e infine gite familiari di medio-lungo raggio. Ancora oggi vado in gita volentieri: che sia l'escursione ad un rifugio alpino: la "scappata" a Ginevra o Annecy, che sia il ristorantino canavesano o biellese, che sia la gita "lunga" in una città d'arte e anche il "finesettimana" con l'aereo low cost, che non è ancora vacanza vera e propria. Ad assecondarmi nella pratica sorgono posti appositi per le gite: dalle vie dei saldi di città familiari come Torino alla nuova dimensione di paesi artificiali come gli "outlet", dalle escursioni culturali a mostre d'arte o a luoghi come Venaria Reale e simili ad attrazioni come "Volandia" - trionfo di mezzi aerei - a Malpensa o all'Acquario - animali marini di tutti i tipi - a Genova. Insomma: muoversi. Grande Fernando Pessoa nell'osservare: «è in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. [...] La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo».