Il verbo "comunicare" viene dal latino "mettere in relazione". Chissà perché, sin da ragazzino, ho pensato che il mio lavoro potesse essere quello di giornalista, in tempi in cui quel mestiere pareva essere piuttosto assestato e che poco sfuggisse al perimetro di quella attività professionale. Nel frattempo i buoi sono scappati dalla stalla e, chi ha vissuto gli ultimi trentacinque anni, sa quanto la trasformazione del giornalismo (pur amando la politica e considerandomi un politico, sulla carta d'identità ho sempre messo "giornalista"), sia avvenuta con nuovi media e con le associate figure professionali. Fra gli strumenti a disposizione va detto che Internet - multiforme e in espansione - troneggia sempre di più. Mi ha sempre affascinato pensare al passato più remoto e al fatto che, in fondo, le grandi novità sono sempre una modernizzazione tecnologica di qualcosa che c'era già. L'idea che il sistema di castelli e di torri, che punteggiano la Valle come una ragnatela, avessero sistemi diurni e notturni per far girare le notizie mi ha sempre affascinato. Oppure l'uso, di cui i regnanti erano gelosi, dei piccioni viaggiatori (anche nelle norme del "Coutumier" valdostano) era segno di come comunicazione fosse potere. Sino a ragionare, nell'Ottocento, secolo di grandi scoperte scientifiche su quel tapino di Innocenzo Manzetti, cui si deve la misconosciuta e purtroppo scippata scoperta del telefono sulla cui versione attuale gira gran parte delle novità che ci fanno vivere in rete. Personalmente sono affascinato da come oggi, accanto ai media tradizionali che salgono e scendono come in una vorticosa giostra a seconda dei momenti (pensiamo alla Radio, che ha subito improvvisi invecchiamenti e impreviste rinascite piene di smalto), ci siano questi benedetti-maledetti social media. Io seguo - e qui a fianco ho aperto una finestra - "Twitter", ma immagino che nuove e diverse scoperte subentreranno. Si tratta, per chi ha la mia età, di mettersi di buzzo buono e di lanciarsi all'inseguimento delle novità per evitare di essere lasciato indietro. Eppure l'homo tecnologicus (o "technologicus") vive un rischio crescente. Questa centralità, nel mezzo di una rete fatta di ricezione e di invio di un numero straordinario di informazioni, obbliga a dotarsi di "filtri", che evitino di finire vittima di una bulimia comunicativa e lo stesso vale per strumenti e interlocutori quasi infiniti per la limitatezza delle nostre singole forze. Vale la pena, di fronte a rischi di dipendenze e nevrosi, di segnalare il rischio maggiore, quello che si dimentichi la necessità e la forza della comunicazione interpersonale "vis à vis", che è una dimensione insostituibile malgrado le chat, i forum, le videoconferenze e tutti i sostitutivi della presenza fisica reale. Questa, per realtà piccole come la Valle d'Aosta, come collante di una comunità reale e non virtuale, è indispensabile. Non ci sarebbe discussione sul nostro futuro, confronto su argomenti di prospettiva e persino qualche scambio rude su scelte strategiche se questo avvenisse solo in modo digitale. Il giornalista e scrittore francese Luc Fayard ha scritto con sintesi brillante, di questi tempi: "Avenir: sombre, incertain, complexe mais aussi ouvert, flexible, changeant... Comme l'économie et comme les technologies".