La storia del giovane romeno, che in Valle d'Aosta prima rapina una tabaccheria e poi mette sotto in macchina due mamme con i rispettivi neonati, è finita sui telegiornali e giornali nazionali. Gli scherzi del destino, applicati alla gettonatissima cronaca nera, alimentano notizie di questo genere che ti fanno rivoltare le budella e - specie sui social media - danno fiato all'emotività e ai desideri forcaioli. Ci torno sopra non per voyeurismo e annotando come, per fortuna, anche il neonato ferito gravemente sta meglio, ma perché l'episodio crea attenzione su un fatto ben noto. Partendo dal presupposto che i delinquenti di diverso spessore non hanno una patria e eguale disprezzo e si presentano sullo stesso piano di fronte alla legge, resta da chiedersi come muoversi per un'educazione alla legalità per chi provenga da Paesi comunitari e non e abbia scelto l'Italia come luogo dove si ritenga più facile delinquere che altrove. Non è una favoletta: il lento ma continuo insinuarsi di organizzazioni criminali di provenienza varia - che si sommano alle già fiorenti mafie italiane - sono il segno di una sconfitta. E' certo che una serie di garantismi e di lentezze della nostra Giustizia, equamente divise fra responsabilità del Legislatore e colpe di chi le applica, crea un humus che favorisce una frangia di "immigrazione cattiva". Oggi la popolazione carceraria vede una presenza del 35 per cento di detenuti stranieri con un lieve calo dovuto alla politica dei respingimenti e alla crisi economica che ha ridotto l'attrattività per gli stranieri che cercavano un lavoro. Come giornalista seguo la periodica polemica sull'indicazione geografica di chi compie dei reati. Quando ero un giovane redattore della "Voix de la Vallée" e gli emigrati da Paesi extracomunitari erano una rarità ci si concentrava su come essere "politicamente corretti" sulla provenienza regionale. Per cui il «pregiudicato sardo» o il «rapinatore calabrese» erano oggetto di discussioni. Ci si domandava se ci fosse, pur velata, in quest'indicazione dell'origine una qualche forma di pregiudizio o peggio di discriminazione, perché - per capirci - in analoghe notizie non si usava mai l'aggettivazione «valdostano». Un dubbio facilmente risolto per chi svolgesse con correttezza il suo lavoro. Ora il tema si pone per «romeno», «albanese», «marocchino» e via via nella diversità dei Paesi di provenienza. Anche in questo caso io non penso che ci sia un "j'accuse" conscio o inconscio. Semmai esiste un problema di percezione sociale e di convivenza, che non va sottostimato perché basta poco a trasformare la vita in comune - intesa nella stessa comunità - in un inferno. Ecco la ragione del dialogo interculturale e del ruolo della politica, perché con i gruppi etnici si stabiliscano "ponti" di dialogo in favore di regole e di meccanismi di integrazione e di comprensione, che isolino i farabutti degli uni e degli altri.