Ho incontrato molte volte in vita mia il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni. L'ho fatto in diversi ruoli istituzionali e, dovessi essere franco, non mi sono mai formato un'opinione compiuta su di lui. Sicuramente un grande navigatore della politica italiana che forse aspirava, dopo aver guidato con pugno di ferro la sua Regione sin dal lontano 1995, a spiccare un salto nel gotha della politica nazionale. Oggi penso, invece, che le intricate vicende che lo riguardano non lo porteranno più da nessuna parte. Ma dovessi scommetterci sopra non lo farei, avendo dimostrato una grande vitalità in momenti difficili che attraversa con grande sicurezza e mai con atteggiamenti penitenziali che uno si immagina connessi alla sua appartenenza ai "Memores Domini" (associazione laicale cattolica di persone che vivono in povertà, castità e obbedienza nel solco di "Comunione e Liberazione"). Ora Formigoni rilancia le "macroregioni" in Italia, vecchio cavallo di battaglia - non a caso naturalmente perché chi lo fa stare in piedi alla Presidenza è la Lega - del mio amico Gianfranco Miglio, costituzionalista e federalista eminente che negli anni Sessanta aveva lanciato questa idea, ripresa poi negli anni Novanta in epoca di "Bicamerale" per le riforme quando andava d'accordo con il leader padano Umberto Bossi, che poi lo mollò con code di definizioni volgari che il professore non meritava («Miglio, una scoreggia nello spazio»). Naturalmente "a tu per tu", Miglio diceva sempre che noi valdostani non saremmo dovuti "annegare" nella macroregione del Nord per le nostre specificità che ben conosceva, ma Formigoni riprendendo l'idea - fatta propria in passato anche da quella bizzarra creatura che è la "Fondazione Agnelli" - direi che non ha fatto dei distinguo di nessun genere e naturalmente me ne dolgo. Io non voglio che l'identità culturale, politica, geografica della Valle d'Aosta muoia nell'ambito di questo "mostro" che il Presidente lombardo propone, come già fecero quelli che cavalcarono prima di lui analogo progetto (che nulla ha a che fare con la "macroregione alpina", che è una strategia a livello europeo). Penso che su questa posizione non sia neppure da aprire un dialogo: il "no" deve essere secco e deciso e semmai si tratti di rilanciare con grande decisione il fatto che per uscire dalla sceneggiata all'italiana del regionalismo attuale non esiste altra strada che il federalismo. Ma in questa fase il federalismo è in ombra e da valore aggiunto nel dibattito politico italiano è stato in fretta "rottamato" e il neocentralismo impazza come medicina contro tutte le malattie. Peccato che abbia già ampliamente dimostrato - in 150 anni di storia patria, dall'unità ad oggi - di non funzionare affatto. E che sia chiaro come le macroregioni siano una caricatura del federalismo. Ricordo cosa scriveva proprio a Miglio un altro mio amico, Massimo Cacciari, in un dialogo pubblicato su "Micromega": «Federalismo non può significare tagliar via il centro. Se così fosse, diventerebbe sinonimo di moltiplicazione di centri. Federalismo è riorganizzazione di principio della relazione centro-periferia, sulla cui base possa definirsi concretamente un nuovo sistema di responsabilità. Federalismo è ridefinire i ruoli e le responsabilità del Governo centrale e dei governi dei diversi Stati, ma ridefinirli all'interno di un vero e proprio patto costituzionale. Federalismo non è affatto, rozzamente, indebolire il Governo centrale, ma rilegittimarlo e, dunque, rafforzarlo, all'interno dei suoi limiti, per le funzioni specifiche che sarà chiamato ad assolvere e che in nessun modo debbono ledere o indebolire quelle dei diversi Stati della federazione». Parole purtroppo distanti dallo Stato giacobino apparso ormai sulla scena come "castigamatti" della democrazia locale.