La mondializzazione (o, se preferite, la globalizzazione) deve fare i conti con le culture, la loro ricchezza e diversità, che rendono l'umanità mutevole e molteplice. Ovvio - per banalizzare - che le marche di jeans siano le stesse nel mondo (con mirabolanti "tarocchi"), che i medesimi brani musicali siano "scaricati" attraverso tutti i Continenti, non c'è dubbio sul fatto che certi cibi, dagli hamburger alla pizza, si trovino sotto qualunque latitudine, la televisione propone dappertutto gli stessi "format" (ricordate il film "The Billionaire"?) e ciò potrebbe rendere tutto simile con un "effetto schiacciasassi". In realtà, però, ogni cultura assorbe, interpreta e infine digerisce questa apparente uniformizzazione attraverso il proprio bagaglio e il proprio modo di essere, creando una forma di integrazione di quanto di nuovo arriva. Così persiste, infine, la differenza che passa le novità attraverso il "filtro" delle persone, dei popoli, delle comunità. Leggo di tanto in tanto, con punte polemiche in occasione della "Festa della Valle d'Aosta", attacchi rabbiosi e lividi all'identità valdostana, come se fosse una cosa grottesca, risibile e fasulla. Invece si tratta di un'identità in movimento, fatta come avviene per tutte le identità di un patrimonio di idee, miti, comportamenti, costruzioni, simboli, che si trova a confronto con una realtà più aperta e complessa che in passato. Con l'avvertenza per gli scettici e i sarcastici professionali che le radici ci sono e non sono invenzioni: si tratta di cultura, che legittimamente può non piacere e nessuno obbliga nessuno a riconoscerla e a condividerla, ma esiste e cambia nel tempo, trasfigurandosi.