Qualche giorno fa, in punta di piedi, ho evocato sul blog, con conseguenti commenti interessanti, la malattia che oggi incute più paura: il cancro. Ciò avviene dappertutto, ma certe percentuali da noi accrescono l'apprensione, almeno fino a quando - e il giorno verrà, com'è avvenuto per altre malattie - non ne saranno svelate le cause e trovate le cure risolutive. Ma nella nostra comunità esiste un'altra malattia diffusa, altrettanto da indagare per ricercarne i meccanismi fra motivi psicologici e ragioni organiche, che resta molto sottotraccia: la depressione. Ricordo di averne discusso, tanti anni fa, con un grande depresso, il Priore Donato Nouchy, che rinveniva negli psicofarmaci un farmaco salvavita per molti valdostani, in precedenza vittima di quella propensione al suicidio che è stato un fenomeno culturale diffuso e che purtroppo, come mostrano le cronache, colpisce ancora. E purtroppo il fil rouge è evidente. Si tratta di una malattia spesso banalizzata, anche se indagata da molta saggistica divulgativa, e che, come il cancro, paga il prezzo di una sorta di incomprensione della società, che tende a fare di questo "male di vivere" uno stato d'animo facilmente superabile, mentre per molti è un baratro buio da cui non ci si risolleva, purtroppo, con la sola forza di volontà. Oggi molte campagne d'informazione, spesso confusamente sovrapposte, si occupano degli stili di vita, dei problemi alimentari, dell'importanza dello sport e così via. Sembra esserci meno interesse a riflettere, in un rapporto fra settore pubblico e cittadini, sui delicati equilibri della mente, territorio invaso per altro da miriadi di proposte, risposte, soluzioni non sempre strettamente riportabili alla scienza, i cui confini - sempre mobili per loro natura - non agevolano la comprensione e il distinguo fra utile e inutile.