blog di luciano

Dialogo fra generazioni

Invecchiare è una rottura di scatole, ma è sempre meglio che essere morto. Constatazione lapalissiana, ma di cui ti rendi conto appunto solo invecchiando. Quando ti accorgi, come su di una scacchiera, di quanti pezzi scompaiano attorno a te e tu - per tua fortuna - sei rimasto ancora lì.
Più vai avanti e più - immagino - questa sensazione si rafforza. Ricordo mio papà, per sua fortuna ultraottantenne, quando diceva nell’ultimo tratto della sua vita quanto gli mancassero e lo diceva con sincero sgomento tutti gli amici scomparsi e anche i suoi fratelli e sorelle che lo avevano lasciato solo.
Mi riconosco in due frasi. La scrittrice e filosofa Susan Sontag: “La paura di invecchiare viene nel momento in cui si riconosce di non vivere la vita che si desidera. Equivale alla sensazione di abusare del presente”.
E il grande Albert Einstein in una lettera allo psichiatra Otto Juliusburger: “Le persone come Lei e come me, anche se ovviamente mortali, non invecchiano nemmeno se vivono molto a lungo. Intendo dire che non smettiamo mai di osservare come bambini curiosi il grande mistero nel quale siamo nati”.
Ci penso ogni volta che incontro le giovani generazioni. L’ho sempre fatto e, avendo cominciato prima a fare il giornalista (mantenendo sempre aperta questa porta) e poi politica quando ero poco più che ragazzo, c’è stato un lungo periodo in cui il giovane ero io rispetto al mondo che vivevo. Quindi convivevo in ambienti in cui erano tutti più “grandi” di me con la straordinaria sensazione di poter acquisire, come una spugna che si imbeve, le tante cose che sapevano e, nel contempo, mantenere un rapporto stretto e facile con i miei coetanei e il “nostro” modo di pensare.
Oggi naturalmente questa osmosi bicefala non esiste più e spero di poter essere considerato chi ha esperienza e riesce a trasferirla ad altri, affinché quanto ho appreso non resti un mio fatto personale, ma possa in qualche maniera risultare utile nel trasferimento delle competenze acquisite per quello che ho fatto nella mia vita.
Ci pensavo in queste ore - ma il pensiero è ricorrente in molte altre occasioni quotidiane - in cui sono stato con alcuni ragazzi in visita ad Auschwitz e ha avvertito naturalmente il venir meno di quella facilità di dialogo che avevo decenni fa. Mano a mano che ti allontani dalla età giovanile e meno arrivi a capire le trasformazioni mentali e sociali di chi è giovane oggi e bisogna sforzarsi di evitare di diventare un laudator temporis acti. È orribile qualunque approccio meramente nostalgico e lo odiavo quando ventenne incontravo chi viveva solo di ricordi e cercava in più di sostenere l’esistenza di un passato sempre migliore del presente, creando un solco spesso incolmabile fatto di reciproche incomprensioni. Una puzza di naftalina insopportabile e spesso con la presunzione e la sicumera di indicare a chi è più giovane strade ormai incoerenti con i cambiamenti avvenuti e in corso.
Mentre, per non spezzare il filo del dialogo reciprocamente utile, ci vogliono comprensione e umiltà, sapendo quanto è o sarebbe utile evitare un mondo in cui il nuovismo sia un esercizio inutile. Mi spiego: è ovvio che molto cambi e le innovazioni di tutti i generi sono per fortuna una delle forze della nostra umanità, ma il passaggio di testimone fra generazioni deve avvenire senza buttare via improvvidamente quanto di utile c’è stato e il patrimonio di conoscenze va considerato un’utile eredità su cui ogni epoca deve costruire un proprio modo di essere. Così è sempre stato.
Ecco perché ad Auschwitz e Birkenau ho detto ai giovani presenti quanto può apparire banale, ma non lo è affatto. E questo è avvenuto dopo una visita lunga e accurata grazie ad una guida competente, che ha ricostruito senza omissione alcuna quanto avvenne nel campo di sterminio non solo nei suoi aspetti descrittivi, ma anche morali e politici.
E cioè, con grande semplicità, di fronte a certe categorie contrapposte e pur complesse, tipo Odio-Amore e Male-Bene, bisogna tenere fissa una bussola che ci indichi la via positiva lungo la quale si debba far scorrere la nostra esistenza. Altrimenti si rischia, in occasioni in cui si vede con chiarezza come il Male e l’Odio abbiano fatto dei danni terrificanti, di diventare e sentirsi pessimisti o depressi.
Senza indulgere a pensieri troppo da lieto fine che dipingano un mondo a tinte sempre colorate, è bene che si dica chiaro e forte, come un messaggio da trasferire e in cui credere, che bisogna battersi sempre e in modo indefesso affinché i “cattivi” sin da subito non vincano o almeno, alla fine di tribolazioni, vengano sconfitti.

Auschwitz resta Auschwitz

Torno ad Auschwitz (Oświęcim in polacco) per l’ennesima volta con scolaresche valdostane, accompagnato - come già avvenne con il resto della famiglia - da Alexis, l’ultimogenito. Ho già scritto come questo avvenga per tre ragioni, che ricordo brevemente.
La prima è una scelta, che presi quand’ero Presidente della Valle, e cioè quella di portare ogni anno degli studenti valdostani nel luogo più abietto dell’Olocausto voluto dai nazisti. Si tratta, precisando ogni volta l’orrore per qualunque parallelo totalitarismo, di ricordare come la Shoah (termine preferito dagli ebrei) mantenga una sua particolarità. Non si tratta solo di persecuzioni antisemite, ma di un piano orchestrato da Adolf Hitler per un’eliminazione del popolo ebraico, detta “soluzione finale”. Vero è che i lager ospitarono anche dissidenti politici, omosessuali, zingari in una logica persecutoria, ma la macchina dello sterminio nacque in modo rozzo e poi divenne sofisticata per uccidere e bruciare gli ebrei di tutta Europa. Questa resta una singolarità terribile e marcante, che sfugge a qualunque tentativo negazionista, revisionista o benaltrista.
La seconda ragione è che visite di questo genere sono come una vaccinazione contro le dittature e i regimi a diverso titolo liberticidi. Chi visita un lager ne esce pieno di commozione e di emozioni e non può che riflettere su certi fatti documentati e sulla condizione umana quando torture, uccisioni, esperimenti spaventosi, crudeltà inutili trasformano gli uomini in animali feroci e in burattini nelle mani di matti al comando.
La terza ragione, che molti lettori già sanno, è che mio papà ci finì ad Auschwitz per un certo periodo, perché internato con altri militari valdostani che non avevano raggiunto la Repubblica di Salò nelle mani dei tedeschi. Per questo fu portato lì e comprese quanto avveniva e lo raccontava, anni dopo, con evidente raccapriccio, essendo stato ferito nell’animo per sempre da questa esperienza.
Ecco perché i suoi nipoti devono sapere, ammirando quel loro nonno, uomo probo che accompagnava prima di quel viaggio ebrei che cercavano la libertà in Svizzera attraverso i colli delle nostre montagne valdostane.
Ad Auschwitz si è come nudi, impotenti, spaventati, indignati, piangenti, svuotati: tanti stati d’animo che emergono dai racconti delle guide, dalle sensazioni nell’attraversare i luoghi, guardare le camere a gas, capire i percorsi dai vagoni piombati al fumo dei camini, i riti fra il grottesco e il sadico, la morte che aleggia.
Rivedo la foto di mio papà arrivato ad Auschwitz, appena ventenne, con una blusa con numero e lo sguardo fisso: l’inizio di un lungo anno, terminato poi a Cracovia con una fuga avventurosa. Sappiano i miei figli di Sandrino precipitato nel cuore di uno dei luoghi spaventosi della Seconda guerra mondiale, che deve convincerci ad essere contro la guerra e contro chi - pensiamo a Putin - oggi l’alimenta in un progetto espansionista contro l’Europa unita.
Lo sappiano i miei figli per combattere chi ritorna da quel passato, incarnato in neofascisti e neonazisti, che falsificano la Storia, che tornano con nostalgia a quanto dovrebbe essere sepolto per sempre e essere solo oggetto di vergogna e di rigetto. Questo vale - lo ridico - per ogni altra persecuzione, strage, genocidio, privazione della libertà, razzismo e xenofobia e ogni altra bruttura in questi medesimi solchi. So bene dei gulag, dei campi di rieducazione, delle foibe, delle lotte tribali e etniche, delle stragi degli armeni, della distruzione delle popolazioni indigene, di chi fugge dai propri Paesi perché perseguitato, di chi scappa per fame e per paure. L’elenco è purtroppo incompleto e come nel quadro su Guernica di Picasso potremmo aggiungere elementi a questo affresco così tragico.
Ma Auschwitz resta Auschwitz come simbolo da visitare e capire. Si esce come se si fosse trattato di un viaggio al rallentatore, avvenuto in un luogo apparentemente surreale e invece terribilmente reale: una full immersion da choc che ti rende migliore.

I truffatori del culto mariano

Da ragazzo lessi - forse su quella bizzarra rivista che avevamo a casa, che si chiamava Selezione dal Reader's Digest - la storia del famoso medico di Lourdes, Alexis Carrel, premio Nobel della medicina. Era agnostico, ma divenne cattolico fervente, perché - come scrisse nel suo libro più famoso firmato Lerrac (Carrel al contrario) - era stato testimone di veri e propri miracoli avvenuti su malati in visita nel celebre santuario dedicato alla Madonna, dopo le ben note apparizioni.
Quando sono stato a Lourdes in visita, pieno di racconti di conoscenti che ci erano stati, sono rimasto impressionato dai luoghi e dalla forza mistica della devozione popolare. Il commento più acuto, però, lo fece il piccolo Alexis, fresco di catechismo, che - nelle vie piene di negozi con cianfrusaglie al limite del kitsch - se ne uscì con candore, dicendo: “Ma Gesù non voleva cacciare i mercanti dal Tempio?”.
Per curiosità in quello stesso periodo mi ero letto varie cose sul fenomeno ancora vivo di Međugorje, località dell’Erzegovina, anch’essa nota per apparizioni mariane e di fatto tollerata da un Vaticano pieno di dubbi sugli eventi e per certi business.
Leggo in queste ore l’acuto Mattia Feltri sulla sua rubrica quotidiana, legata all’ultima storia di Trevignano che eccitano i tragici contenitori televisivi, amati dalle ormai anziane casalinghe di Voghera o meglio di Catanzaro. Scrive Feltri: “Mi ricordo Madonne piangenti a Firenze, a Catania, a Civitavecchia, a Subiaco, a Castrovillari, e ne ricordo in Belgio, in Canada, in Irlanda. In Scusate il ritardo, film del 1983, Massimo Troisi suggeriva alla Madonna di ridere, così gli scienziati non avrebbero spiegato le lacrime col legno che trasuda per un improvviso cambiamento di temperatura. Quarant'anni dopo siamo ancora lì, ma da molto tempo non mi va di irridere chi si mette in fila per assistere al miracolo, sempre il solito, sempre nuovo. L'uomo ha bisogno di credere a qualcosa di prodigioso che si manifesti a riscattare tanto insensato dolore: si crede alle lacrime della Madonna perché sono le lacrime nostre. Quando vedo le foto di quell'umanità, ordinatamente in attesa di trovarsi faccia a faccia con la speranza, tutto penso fuorché sia ridicola. Piuttosto mi fa dispiacere pensare alla disillusione, il giorno in cui il loro profeta se la svignerà col malloppo”.
Trovo irresistibile l’immagine della Madonna sorridente e non, da stereotipo, piangente e lo faccio con rispetto, pensando al profondo e partecipato culto mariano in Valle d’Aosta.
Ma Trevignano è altra cosa e inerisce la credulità popolare e un uso grottesco della fede, che deve far riflettere. A trafiggere l’ennesima santona ci pensa un pezzo magistrale Matteo Matzuzzi): “La storia è nota, da sette anni la signora Gisella (nome d’arte di Maria Giuseppa Scarpulla, già imprenditrice da tempo trasferitasi nel Lazio) sostiene che sulla collina che domina il lago di Bracciano appare, ogni 3 del mese, la Madonna. Che le parla e piange sangue, affidandole messaggi (quasi mai positivi) per l’umanità. La curia è sempre stata prudente, fino a quando gruppi di credenti si riunivano recitando il rosario andava pure bene. Ma quando entrano in scena le “donazioni spontanee” alla onlus costituita dalla “veggente”, le cose si complicano. Il problema è che a Trevignano si recano regolarmente migliaia di cattolici, da tutta Italia per ascoltare i messaggi e guardare da vicino le lacrime (umane o suine? Sul punto è aperta una contesa, ma finora dati certi non ve ne sono).
La vicenda, in attesa del verdetto vescovile, denota una grassa e disarmante ignoranza dei fondamentali del catechismo tra quanti pure si definiscono cattolici. Basta mettere in mezzo al prato una statua della Vergine, quattro panchine, una croce, un rosario ed è fatta: ecco la Medjugorje italiana, almeno secondo le intenzioni di Gisella”.
Ma le cose, spiega il giornalista, sono degenerate: ”Che però ha fatto il passo più lungo della gamba, condendo la storia (sua e del suo santuario) con dettagli trash, non a caso ripresi dai programmi pomeridiani che mescolano il sacro con il profano, i rigorosi toni monacali con le paillettes. La presunta veggente, infatti, ha raccontato che davanti ai suoi occhi e di alcuni suoi amici si sarebbe verificata la moltiplicazione di una teglia di pizza – “Era per quattro persone e ne hanno mangiato in venticinque” –, di un coniglio e perfino di “un piattino di gnocchi”. Altro che pani e pesci di Galilea, il cristianesimo s’è adeguato al menù dei comuni mortali del Terzo millennio. Non serve a niente che il Papa abbia avvertito che la Madonna non è una postina che recapita a certe ore programmate i suoi messaggi come se fosse il capo di un ufficio telegrafico. Basta la statua di Maria e il fedele accorre, in qualche caso aprendo pure il portafoglio. Cosa resta, in tutto questo, tra pizze moltiplicate e onlus, della pura e bella devozione mariana? Niente. Attenti, avvertiva qualche tempo fa il predicatore della Casa Pontificia, il cardinale cappuccino Raniero Cantalamessa: va bene onorare Maria, e ci mancherebbe altro, ma ricordiamo sempre il suo “ruolo subordinato rispetto alla Parola di Dio, allo Spirito Santo e a Gesù stesso”. Qui, invece, si crea il cortocircuito perfetto per cui a moltiplicare il coniglio non è più neppure Gesù, ma – si presume – sua madre. E nonostante un quadro con non pochi elementi degni della miglior commedia, in tanti che si professano cattolici, accorrono”.
Ed è una vera tristezza e anche una pochade irrispettosa verso il cattolicesimo.

Morte sulle cime

SIGNORE DELLE CIME
(Bepi de Marzi)
Dio del cielo, signore delle cime
un nostro amico hai chiesto alla montagna
ma ti preghiamo,
ma ti preghiamo,
su nel paradiso, su nel paradiso, lascialo andare
per le tue montagne.
Santa Maria Signora della neve,
copri col bianco soffice mantello,
il nostro amico, il nostro fratello,
su nel paradiso, su nel paradiso, lascialo andare
per le tue montagne.

Mi ha colpito e addolorato la tragica notizia della valanga precipitata sul gruppo di alpinisti, che era impegnato nel corso guide valdostane nella zona della Tsanteleina, la vetta situata alla testata di valle della Val di Rhêmes. Sotto la neve - già solo scriverlo è difficile, pensando ai precedenti versi della canzone che ha accompagnato tanti momenti tristi - sono morte tre aspiranti guide. Elia Meta, 37 anni, appuntato della guardia di finanza, Sandro Dublanc, 44 anni maestro di sci a Champorcher e il campione di scialpinismo di Bormio, 39 anni, Lorenzo Holzknecht, cui rendo omaggio.
È stato come un flash che mi ha riportato indietro negli anni ad una estate che mai dimenticherò, quand’ero un giovane cronista RAI.
Era il 1985: sei giovani alpinisti dai 18 ai 33 anni, cinque aspiranti guide ed il loro istruttore, morirono scalando la parete del "Lyskamm", sul massiccio del Rosa. Ricordo quel rientro in elicottero, dopo aver "girato" il servizio, con il capo del Soccorso alpino valdostano, Franco Garda, ed il medico Carlo Vettorato che piangevano disperati, seduti sul velivolo giusto di fronte ai sacchi con alcune delle salme appena recuperate.
A tanti anni di distanza torna, in circostanze diverse, una sciagura che falcidia alpinisti di grande capacità, altrimenti non sarebbero stati pronti all’ultimo passo verso la professione di guida alpina. Guide che restano in assoluto l’élite del professionismo, acquisendo nella loro formazione, che continua negli anni, livelli di assoluta eccellenza, che purtroppo non li preserva del tutto dai pericoli insiti nel loro lavoro.
Trovare le parole, pensando allo strazio delle famiglie, delle loro comunità e dei loro amici, è difficile e grava sempre nei commenti il rischio della banalizzazione o della retorica melensa.
Ricorda Reinhold Messner: “Non si può mai dominare la natura, l’alpinista deve assumersi le proprie responsabilità e non dare la colpa alla montagna”.
Chi vive in montagna, la ama e la conosce sa bene quanto il rischio pesi in alta quota e come, malgrado le necessarie accortezze, esista sempre l’imponderabile. Capita, nello spiegare l’ambiente montano, di usare l’aggettivo “ostile” e di essere corretti da chi delle Alpi ha una immagine da cartolina. Mentre l’aggettivo è giusto perché anche posti meravigliosi possono diventare in un istante nemici in determinate circostanze e il rischio non si azzera mai. Chi affronta le cime lo mette in conto.
Ma quando avviene un dramma è sempre un colpo al cuore.

L’addio al Terzo Polo

Era prevedibile che sarebbe stata difficile la convivenza di due galli in un pollaio. Il celebre detto ora si può applicare al tentativo in fase di naufragio di mettere assieme Italia Viva di Matteo Renzi e Azione di Carlo Calenda nell’ormai famoso Terzo Polo. Da giorni - segno che ormai il parto non ci sarà - i due se le cantano e se le suonano, come capita quando la discussione politica trascende.
Ciò avviene in realtà in un clima di generale disinteresse per uno scontro personale fra due leader, che serve a poco e insanguina i Social con insulti e improperi.
Resta e campeggia la questione delicata del ruolo del leader, figura carismatica che serve in politica, con la necessità che non diventi un solista, ma sia un direttore d’orchestra che sappia dirigere e ricordi il ruolo dei singoli musicisti per fare una buona musica, perché la bacchetta non basta da sola a dare autorevolezza. Bisogna che sappia far convivere anime diverse e sappia come far crescere talenti e mantenga rispetto verso altre personalità, sapendo che lui stesso è amovibile. Nessuno alla fine deve ritenersi indispensabile in una democrazia, soprattutto in un’epoca in cui a bruciarsi per chi arriva al vertice è un attimo.
Traggo dal sito “una parola al giorno” una definizione sintetica dell’uso della parola leader: “Capo, guida di un partito o di uno schieramento politico; esponente principale di un gruppo, movimento culturale, ecc. Nello sport, concorrente che è al primo posto in classifica durante un campionato o una gara o il cavallo che è in testa in una corsa. Usato anche come aggettivo, di solito per definire qualcosa all’avanguardia in un determinato settore”.
L’etimologia è facile: voce inglese, dal verbo to lead, ‘guidare’, ‘condurre’.
Ma non si tratta in italiano di un anglicismo recente e uso la stessa fonte: “Il leader, che indica il capo di un partito, viene mutuato dalla lingua inglese nel 1834, assieme ad altri, numerosi prestiti, adattati e non, che vengono importati, direttamente o tramite la mediazione del francese”.
Poi un comprensibile scenario si apre attraverso la parola: “In un periodo ricco di stravolgimenti dal punto di vista sociopolitico, in cui fette sempre più ampie della società iniziano ad appropriarsi dei propri diritti di cittadini, anche la percezione e la gestione della cosa pubblica cambiano, e la diffusione del vocabolo inglese ne è una delle numerose dimostrazioni.
E qui arriviamo alla seconda, importante differenza che contraddistingue la nostra parola: non ci troviamo di fronte ad un termine tecnico, tutt’altro. Il leader è in qualche modo l’evoluzione del capo, in un momento in cui guidare un partito, un governo o una formazione politica è sempre meno prendere ed imporre decisioni unilaterali dall’interno dei palazzi e sempre più essere capaci di trascinare le masse, il cui consenso diventa imprescindibile per ottenere il potere. Siamo quindi ben lontani dal freddo, asettico mondo del linguaggio settoriale e andiamo dritti verso i sentimenti che un leader dev’essere in grado di suscitare per conquistare sostenitori: la sua guida (termine che traduce l’anglismo fedelmente) dev’essere rassicurante e guadagnare fiducia attraverso tutta una serie di doti che sono ritenute fondamentali per questa figura, dalle abilità comunicative alle capacità decisionali, dal prestigio al grande carisma. Un tragico apice fu raggiunto dai capi dei grandi regimi totalitari del Ventesimo secolo, la cui leadership, come noto, fu portata fino alle estreme conseguenze, e la loro incarnazione di leader si ritrova anche negli appellativi che li hanno contraddistinti, con Führer e Duce che significano, letteralmente, proprio guida, condottiero. Oggi leader conserva, a differenza di questi corrispettivi, un’accezione estremamente positiva, con riscontri negli ambiti più vari (oltre alla politica, ricordiamo lo sport, l’economia e il mondo del lavoro, la cultura e lo spettacolo, la psicologia) e tanti derivati quali leadership, leaderboard e leaderismo a confermare la sua solidissima presenza nel nostro lessico”.
La stessa piccola comunità valdostana deve riflettere, pensando al dopoguerra, a certe personalità faro espressione quasi sempre (sarei tanto di togliere il quasi) dell’area autonomista ed è bene proprio per il futuro di quest’area, impegnata in una cruciale fase in questo momento di riunificazione dopo anni di divisioni, confrontarsi su modelli organizzatovi che mettano assieme personalità forti che sappiano ricomporre diverse anime con rispetto reciproco e capacità di sintesi sulle soluzioni ai problemi reali.
Per questo ci vogliono delle guide, termine caro per chi ami la montagna e la metafora della cordata che scala una cima. Il verbo “guidare” viene significativamente dal germanico medievale “widan” e significa ‘indicare una direzione’.
Sfida mica da sottostimare nella temperie complessa di questi anni, in cui ci vogliono molta buona volontà e tanta solidarietà e non la gramigna delle liti.

In Russia c’è una dittatura

Leggo spesso su Il Foglio Quotidiano le analisi acute e mai banali di Luciano Capone.
Prima di riferire di sue recenti riflessioni, vorrei proporre un mio primo pensiero sui filorussi, che sono ormai una pletora di varia coloritura e posizione. Ci sono di certo dei prezzolati, ce ne sono che ammirano Putin perché dittatore, ci sono gli antiamericani, certi comunisti d’antan e quelli che amano essere anticonformisti. Poi ci sono i cretini, spiace scriverlo, ma certe persone - che non sono troll russi che agiscono per ovvie ragioni - vanno catalogate così senza intento offensivo, ma come banale constatazione di una posizione legittima, certo, ma insostenibile se si applica un minimo di logica.
Ma il focus di Capone riguarda il mondo del pacifismo, anch’esso una compagnia di giro con varie sfaccettature, e talvolta dallo sguardo strabico.
Così spiega: ”Questo terrore è iniziato con processi farsa di oppositori politici e dissidenti, e si è concluso con esecuzioni di massa e imprigionamento di comuni cittadini, compresi coloro che hanno accolto con favore i primi processi farsa”, prosegue l’appello sottoscritto per chiedere la liberazione di Vladimir KaraMurza. Il dissidente russo – ex collaboratore di Boris Nemtsov, l’oppositore liberale di Putin ucciso nel 2015 – è stato arrestato e rischia 25 anni di carcere. La colpa di Karamurza è, in sostanza, di essere un pacifista. L’attivista, che in passato è sopravvissuto a due avvelenamenti probabilmente dalla stessa squadra dell’fsb accusata di aver avvelenato Alexei Navalny, è accusato di “diffusione di informazioni false sull’esercito” e “tradimento”: nel primo caso per essersi opposto all’invasione dell’ucraina, e questo in Russia è un reato; nel secondo per aver parlato in forum internazionali condannando la guerra e la persecuzione dei dissidenti da parte del regime, e questo è un reato gravissimo. Tanto che se la richiesta dal pubblico ministero verrà accettata, Kara-murza dovrà scontare una pena superiore a quella inflitta agli esecutori materiali dell’assassinio di Nemtsov”.
Chiara l’antifona? Fra veleni, cadute dall’alto con schianto, prigione senza fine e ogni altra raffinatezza da totalitarismo è questo il volto della Russia putiniana e chi non guarda la realtà è ormai in malafede.
Spiega Capone: “In una situazione analoga si trova il reporter del Wall Street Journal Evan Gershkovich, il primo giornalista americano arrestato in Russia con l’accusa di spionaggio dalla fine della Guerra fredda, che rischia 20 anni di prigione. Il reporter ovviamente respinge l’accusa di aver operato come una “spia” per raccogliere informazioni sull’industria militare russa: stava semplicemente svolgendo il suo lavoro, che è certamente quello di raccogliere informazioni, nello specifico sulla compagnia militare Wagner, ma per informare l’opinione pubblica sulla guerra. Ma anche questo non si può. Perché il giornalismo indipendente e la libertà d’opinione, che nelle nostre democrazie sono diritti, nella Russia di Putin sono crimini. In questo senso le vite parallele di Karamurza e Gershkovich, un russo e un americano, fanno parte di un’ondata di repressione del pacifismo molto più ampia: 3.800 persone sono state perseguite per essersi espresse contro la guerra e circa 250 stanno affrontando processi penali”
Orrori, naturalmente, cui certi pacifisti, a mia conoscenza senza grandi eccezioni, non reagiscono e lo ricorda lo stesso giornalista: "Ma i casi Karamurza e Gershkovich sono rivelatori anche di qualcosa che non funziona da noi. Il mondo pacifista italiano ha reagito a questi arresti con freddezza e disinteresse: niente appelli, nessun sit-in davanti all’ambasciata russa, neppure un hashtag. Forse il disinteresse alla sorte di centinaia di cittadini, dissidenti, giornalisti e politici di opposizione che che sono detenuti o processati per aver praticato il pacifismo dove il prezzo da pagare è molto elevato per davvero, e non per posa, è dovuto al fatto che dalle nostre parti c’è la percezione che, in fondo, questi dissidenti siano realmente prezzolati dall’occidente, legittimando indirettamente le argomentazioni di Putin contro i traditori e rafforzando lo stereotipo dell’incompatibilità dei russi con i movimenti democratici e liberali. O forse, più semplicemente, non c’è spazio per impegnarsi a favore dei pacifisti che lottano pacificamente contro Putin in Russia perché le energie dei nostri pacifisti sono tutte concentrate contro i nostri governanti per convincerli a fermare l’invio di armi all’Ucraina, togliendole la capacità di difendersi, per giungere così alla pace”.
Questo pacifismo imbelle verso il dittatore e schierato contro la vittima dell’imperialismo russo lascia attoniti e Capone così chiude: “In mezzo a tanto idealismo, è sicuramente un atteggiamento molto realista che riconosce come far cambiare idea a un governo democratico sia molto più semplice che far tornare sui suoi passi una dittatura che invade un paese vicino, massacra la sua popolazione e rapisce i suoi bambini. Probabilmente nessuna mobilitazione sarebbe in grado di aiutare i pacifisti che incoscientemente manifestano a Mosca e di far liberare i prigionieri politici russi, e il fatto che non ci sia alcuna iniziativa in tal senso è sintomatico di quanto gli stessi pacifisti credano poco nell’efficacia dei loro metodi nel condizionare le decisioni del regime di Putin. Ma se il realismo deve prevalere sull’idealismo, bisogna riconoscere che se oltre alla resistenza armata si rinuncia anche a quella nonviolenta, non rimane che la resa. Basta dirlo chiaramente: agli italiani, agli ucraini e anche i russi”.
Non a caso quest’anno la nostra Festa dell’Europa sarà dedicata all’Ucraina. Per non arrendersi alla controinformazione.

Le auto della vita

Chissà cosa mi è passato per la testa, ma mi sono messo a lambiccare sulle macchine della mia vita. Capita che ogni tanto uno apra delle pagine della propria esistenza su cui non aveva mai fatto mente locale.
Per altro mi sento di aggiungere che a poche generazioni è capitato di vivere cambiamenti tecnologici così impressionanti, com’è avvenuto nel dopoguerra ed ancora oggi. Per non restare indietro, bisogna evitare atteggiamenti conservatori e mettersi di buzzo buono rispetto a qualunque novità.
Da quando esiste la motorizzazione come fenomeno sociale è indubbio come l’auto sia una nostra compagna di vita, che scegliamo con grande attenzione e con cui condividiamo così tanto tempo da sentirla come una parte di noi. Anche se poi siamo infedeli, quand’è il momento di cambiarla.
In realtà sono partito, cercando di ricostruire quali macchine abbia avuto mio papà, trovando anche delle vecchie foto di chissà quale tipo di gara cui partecipò, ma non ne sono venuto a capo.
Apro parentesi: nella casa dei miei genitori esiste un cassettone di foto della loro e anche della mia vita. Non so, congiuntamente con mio fratello cosa ne faremo, perché in certi casi sono foto di cui non so neppure chi siano i ritratti e quali siano i luoghi. Buttarle via mi parrebbe un sacrilegio, ma prima o poi qualcuno lo farà. Chiusa parentesi.
Un amico che sta facendo ricerche sugli albori dell’auto in Valle d’Aosta mi ha detto che mio papà ebbe come prima auto - così dicono i documenti - una Topolino, che essendo stata in produzione sino al 1955 (papà era del 1923) mi pare del tutto fondato. Poi ricordo vagamente che in casa spuntò (io sono del 1958) una Ford Anglia, vetturetta inglese di cui un solo modello venne venduto nel resto d’Europa, la 105E, dunque immagino fosse stata quella. Poi, così mi dice mio fratello più vecchio di cinque anni rispetto a me, arrivò un’altra Ford, la Consul, di cui non so nulla, se non che - o con questa o con l’auto precedente già citata - ho un flash di un d’incidente stradale in cui seduto dietro e papà, forse per evitare un trattore, uscì di strada e l’auto si rovesciò senza conseguenze gravi.
Il resto mi pare sia stata una scelta che giustificò la presenza in casa di due garage: il garagino che conteneva la 500 auto di lavoro del papà veterinario che duravano pochi anni per il loro gran uso (le più belle erano le Abarth, che usai pure io, presa la patente); c’era poi il garage dove giaceva l’auto “di lusso” per grandi occasioni, che furono una serie di Giulia super di diverso colore e con una di queste provai in autostrada la prima ebbrezza della velocità.
Da parte mia ebbi nel 1977 una A112 grigia metallizzata, cui seguirono poi delle Golf, una Passat, Audi e infine Volvo. Dapprima auto da single (quindi anche alcova…) e poi - sposato con figli - macchine per spostamenti, non avendo mai avuto difficoltà, anzi il piacere, nel guidare anche su lunghe percorrenze.
Certo sono impressionato dal cambiamento della tecnica rispetto a certi modelli del passato e, senza indulgere a nostalgie, mi capita di osservare quanto siamo vittime di un’elettronica che inquieta per chi ha vissuto auto del tutto meccaniche. Ma il senso di libertà di diventare proprietario della prima auto, preceduta dal motorino e poi da una Vespa, resta uno di quei piaceri che non si dimenticano.

L’orso come simbolo d’incomprensione

Ho seguito con orrore, avendo scritto più volte sul tema, la vicenda dell’orso che ha sbranato un povero ragazzo trentino appassionato di montagna, che ha avuto il solo torto di farsi una corsa su di una strada vicina a casa sua.
Il caso vuole che sull’espansione dell’orso, non molto tempo fa, scrissi quanto ripubblico, dopo l’ennesima aggressione: “Oggi ci sono in Trentino un centinaio di orsi e secondo la Provincia negli ultimi 5 anni c’è stato un trend di crescita annuo medio pari al 12% della consistenza della popolazione. Nel 1999, per salvare il piccolo nucleo di orsi sopravvissuti da un’ormai inevitabile estinzione, il Parco Adamello Brenta con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, ha dato avvio al progetto europeo - anche in questo caso! - Life Ursus, finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali tramite il rilascio di alcuni individui provenienti dalla Slovenia. Grandi studi per spiegare la convivenza facile, peccato i tassi di riproduzione che sono quelli già descritti e che l’orso, con questo trend, come avvenuto con il lupo, tornerà piano piano su tutte le Alpi. Scelta nobile, ma sarebbe bene capire se l’espansione sarà - come sta capitando con il lupo - infinita”.
Scappatoci il primo morto, ho pubblicato questo Twitter: “Trentino, tracce di sangue e di lotta nel bosco: è stato un orso a uccidere il runner. Si è atteso troppo a Roma, malgrado le richieste delle Province autonome, per capire la pericolosità di un eccesso di certi predatori in zone alpine popolate!”.
Cui ne è seguito un secondo: “Trovo incredibile che un etologo sul Corriere, commentando la morte di un giovane sportivo ucciso da un orso in Trentino, sostenga “bisogna imparare ad avere rispetto”.
Naturalmente dell’orso, non del runner che correva in montagna.”.
Infine ho scritto: ”La conferma dall'autopsia: il giovane Andrea Papi è stato ucciso da un orso - Per chi pensava ad un infarto del runner nella logica da cartone animato di Yoghi e Bubu”.
Pubblico ora alcune reazioni a quanto ho scritto, credo con equilibrio ed educazione.
Cominciamo con questo signorile interlocutore: “E allora cosa facciamo? Li abbattiamo tutti così che 4 pirla possano andare a correre nei boschi? Ma brutto Minus habens ti è emigrato anche il mononeurone?”.
Ecco lo scettico iniziale: “Se è vero che gli attacchi letali di orsi all'uomo sono stati 4 in 150 anni (4 in 150 anni!!!), non potrebbe essere andata diversamente, per esempio che il povero runner abbia avuto un infarto e solo dopo un animale selvatico (orso o altro) abbia infierito? Aspetterei a parlare..”.
Gli risponde un interlocutore più informato: ”Solo in Romania dal 2000 al 2015 si sono registrare 11 vittime da orso, altro che 5 in 150anni in Europa! Storpiare così i dati è dolo infame”.
C’è chi la butta in politica, dandomi del destrorso. L’orso è evidentemente considerato di sinistra: “Trovo incredibile che gli esponenti dei partiti di destra che odiano la fauna selvatica sparino sentenze prima dell'accertamento dei fatti”.
Avanti con l’animalista filosofo: “Noi esseri umani siamo antropocentrici, rubiamo spazio alle altre specie cementificando e creando aree agricole. Entriamo nell’area (piccola) di un animale, lo spaventiamo perché non siamo in grado di gestirlo, lui giustamente reagisce e noi lo uccidiamo”.
Ecco un altro genio: “Quindi quale è la sua soluzione? Sterminare gli orsi?
Ed invece per tutti i runner uccisi dalle macchine ogni giorno cosa vuole fare?”.
Non male anche il benaltrista: “Propongo lo sterminio di tutte le vipere che con i circa 150 morsi all'anno provocano in media un decesso/anno ed anche la distruzione di tutte le api/zanzare/calabroni/vespe che in media uccidoni 10-20 persone ogni anno”.
L’insultante con variante dialettale: “Beh si l'orso d'altronde è un essere senziente, l'orso può capire che se trova un runner lo deve lasciare ij pace. A lucià sei un genio”.
Il comprensivo: “È stato ucciso dall'orso è accertato. Gli orsi fanno gli orsi, non ci si può aspettare che facciano le mammole. Noi dobbiamo poterci difendere e forse stare più attenti ad uscire da soli”.
Dalla parte dell’orso e non del morto: “Tra i due quello fuori posto era il runner non certo l'orso. Da sempre nei boschi ci sono animali selvatici. Come dire che per evitare che un sub incontri degli squali durante una nuotata sarebbe meglio ucciderli tutti. Giusto fare delle aree protette per gli animali selvatici”.
Pubblico una replica che lo ha stecchito: “Guarda che nei boschi del trentino l'orso è stato introdotto 20 anni fa. Facciamo che dove vai tu al mare introduciamo lo squalo ....”.
E un altro ricorda: “Civiltà significava sicurezza dalle bestie feroci. Adesso si capovolge il concetto”.
Concludo con chi, per difendere l’orso, la butta sul sociologico: “Vatti a fare un giro in Trentino non in vacanza e vedrai che bella gente che gira.....”.
Veramente il top della stupidità: la colpa sarebbe del popolo Trentino!
Trovo poi in queste ore la perla di un vero e proprio deficiente: ”C'è il dna del peloso delinquente più volte denunciato per molestie sessuali e vilipendio. Un vicino di albero: "Negli ultimi tempi odiava i salutisti". Spunta intanto la pista anarchica. E il questore rivela: "L'orso cerca il miele, ma non solo" “.
Non ho parole, fa pure lo spiritoso ed è solo la punta di un iceberg di chi, incolto e distante dal conoscere le montagne, considera i montanari degli intrusi. È una storia triste ma significativa del l’abisso creatosi fra la montagna e la pianura, specie con le grandi città. In troppi - con punte fra animalisti ignoranti e ambientalisti integralisti - concepiscono la montagna come un loro parco di divertimento con i montanari come semplici figuranti, se non inutili presenze rispetto all’idea balzana di una natura “selvaggia”. Stupidaggine che fa il pari con chi critica la “visione del mondo antropocentrica”, svilendo noi esseri umani come se dovessimo farci comandare da orsi, lupi, tassi, marmotte o chissà chi altro e ciò avviene nel mondo incantato ma fittizio dei cartoni della Disney. Il mondo animale è crudele e competitivo, farne la culla del candore e della bontà è una falsificazione tutta umana.

Auguri di cioccolato/a

Intanto, Buona Pasqua!
Non conosco l’identità di chi frequenta questo mio Blog Ma negli anni ho incontrato molte persone che lo leggono e questo mi fa piacere. Accomuno tutti in un pensiero affettuoso. Non so se sia la primavera in sé o chissà cos’altro, quel che certo è che questa festività, pur mobile sul calendario, è per tutti e comunque la si interpreti un momento per tirare il fiato rispetto agli affanni quotidiani. Per cui mi adeguo e userò lo spazio intanto
per la descrizione di queste mie prime ore.
Quando un’abitudine si installa nella vita diventa una tradizione. E così avviene anche oggi al risveglio con le uova. Nelle settimane precedenti si accumulano o per acquisto o per regalo un certo numero di uova di Pasqua, che - a differenza della mia infanzia, quando c’erano solo cioccolato al latte e quello amaro - diventano l’attrazione cui dedicarsi, fatta ormai di diverse varianti di gusti, frutto dell’’ingegno dei maîtres chocolatiers.
Ebbene, a casa nostra si mettono uova sul tavolo, pronte al sacrificio e spogliate del loro involucro (ormai usato per celare taglie piccole delle uova, risparmiando sul cioccolato), e poi si procede alla loro sopressione con scorpacciata. Ma di cosa? Cioccolato o cioccolata?
Così scrive Matilde Paoli dell’Accademia della Crusca: “Del problema dell'oscillazione con cui è reso in italiano il termine di origine amerindia (nahuatl chocolatl), giunto in Europa tramite lo spagnolo chocolate, si è occupato Bruno Migliorini in un saggio datato 1940 dal titolo Cioccolata o cioccolato? (Profili di parole, Firenze, Le Monnier 1968, pp. 46-56). A cioccolate, forma introdotta da Francesco Carletti nei primissimi anni del Seicento e confermata nel 1620 dal Vocabolario italiano e spagnolo di Lorenzo Franciosini, si affiancavano cioccolatte, cioccolata e cioccolato già prima della fine del secolo: nella terza edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1691) si registra la voce cioccolate con la glossa "Dicesi anche più volgarmente cioccolata" e alla voce ingrediente compare cioccolatte in una citazione da Esperienze intorno a diverse cose naturali di Francesco Redi.
Più avanti: “Solo nel corso del Novecento ci si avvia verso una semplificazione che, a livello dialettale, si risolve rapidamente nella riduzione a un unico termine: "Il Piemonte e il Veneto, l'Emilia e la Toscana, Roma, Napoli, la Sicilia hanno optato per il tipo cioccolata, o per una forma dissimilata plebea che non è mai giunta all'uso scritto, ciccolata. Invece la Lombardia ha preferito il tipo cioccolato; la Sardegna, infine, il tipo cioccolate" (Migliorini, Ibid. p. 54)”.
Questo dotto Migliorini concludeva il suo saggio con una previsione: "Si tenga presente la diffusione grandissima, in quasi tutta l'Italia, della forma cioccolata per la bevanda; e si veda d'altro lato con quale uniformità gl'industriali usino la forma cioccolato per il preparato in tavolette: negli avvisi pubblicitari si legge quasi costantemente cioccolato. L'uso delle due forme è storicamente giustificatissimo, e d'altra parte la differenza fra cioccolata in tazza e cioccolato in tavolette (o in polvere) è funzionalmente utile; la diffusione che essa ormai ha nel campo industriale ci fa credere che sia destinata a imporsi generalmente".
Insomma: la cioccolata sarebbe più bevanda, ma se parliamo in giro mi pare che la confusione resti.
L’autrice della Crusca cita questa realtà: “Tullio de Mauro, edizione 2007, cioccolata e cioccolato, entrambi termini di alto uso, sono sostanzialmente sinonimi, sia come sostantivi, col valore di 'alimento costituito da una miscela di cacao e zucchero, con eventuale aggiunta di aromi, essenze o altre sostanze che viene venduto in polvere o sotto forma di tavolette, cioccolatini', sia come aggettivi invariabili nell'accezione 'di colore bruno scuro'; ma la differenza rilevata sul piano del rapporto con altri elementi lessicali e cioè l'esclusività del sintagma cioccolata calda da un lato e di cioccolato fondente, al latte, bianco dall'altro".
Siete frastornati: direi che ci si può come consolazione dedicare all’uovo e sperare nella sorpresa, che ha il marchio sabaudo.
Torino fu la prima città d'Italia in cui arrivò il cioccolato nel '500 portato dalla spagnola duchessa Caterina, moglie del duca Emanuele Filiberto di Savoia, dopo la scoperta dell'America. Sempre a Torino ad inizio '900 venne brevettata la produzione seriale delle uova di Pasqua di cioccolato grazie ai pasticceri di Casa Sartorio che idearono uno stampo a cerniera chiuso che, messo in un'apposita macchina capace di ruotare velocemente, poteva distribuire il cioccolato uniformemente creando due mezze uova complementari che, una volta raffreddate, potevano essere decorate a piacere prima di essere assemblate creando il vero e proprio uovo di Pasqua. Questo consentiva anche di inserire nell'uovo una sorpresa, usanza che si diffuse molto velocemente fino al boom dal dopoguerra in poi.
La sorpresa mi riporta allo stupore dell'infanzia. La parola "sorpresa" (dal francese "surprendre, cogliere inaspettatamente" e quindi "meravigliare") sorprende! E' infatti una parola come un Giano bifronte, per cui si può fare una sorpresa e la si può ricevere e ormai mi pare che la usiamo più nelle accezioni positive che in quelle negative (la triste "brutta sorpresa").
Oggi dedichiamoci alla sorpresa…buona!

Cercare la speranza

“Rien ne va plus”. È questa l’espressione costituita dalla parte finale della formula usata dal croupier per regolare i tempi nel gioco della roulette. In quel momento non si può più fare nessuna puntata, perché la pallina ha cominciato a girare vorticosamente in attesa di depositarsi, segnando il destino fortunato o sfortunato del giocatore. Anche in italiano, in senso figurato, la si usa per significare che quel che è stato è stato, e ormai non c’è più nulla da fare.
Ci si può scherzare sul gioco d’azzardo e soprattutto ci si può sbizzarrire sulla natura umana che insegue il sogno della vincita e le emozioni che si ricavano nel tentare la fortuna.
Nella mitologia greca, Tiche o Tyche è la divinità tutelare della fortuna, della prosperità e del destino di una città o di uno Stato. Originariamente la Dea greca distribuiva gioia o dolore secondo il giusto, poi scandalizzata dall'ingiustizia dei mortali li abbandonò ritirandosi sull'Olimpo.
Tiche era considerata una delle Oceanine, figlie del titano Oceano e della titanide Teti. In altre versioni è la figlia di Ermes ed Afrodite. Nell'arte medievale la Dea è raffigurata con una cornucopia e con la ruota della fortuna.
La cornucòpia, letteralmente corno dell'abbondanza, dal latino cornu («corno») e copia («abbondanza»), è un simbolo mitologico di cibo e abbondanza. Mentre nella tradizione antica e medievale, la ruota della fortuna (in latino, Rota Fortunae) era un motivo iconografico e un simbolo della imprevedibilità delle vicende umane.
Questa storia del destino, in fondo è argomento, enorme e piccino nello stesso tempo. Le vicende umane segnano le epoche con avvenimenti di immensa portata che segnano nel bene e nel male intere generazioni e le loro vite. Lo stesso vale per i singoli e le loro famiglie scosse in positivo o in negativi da eventi che segnano esistenze. Non sempre trovare un filo logico è facile a fronte di imprevedibilità, cui spesso - ad esempio nella Storia - si cerca con facilità di dare un senso a fatti avvenuti.
Nascono le religioni per dare un senso, a seconda delle impostazioni, a questa nostra vita con sistemi più o meno sanzionatori per inquadrare le nostre vite e dare senso a certi saliscendi che colpiscono noi e le nostre comunità.
E il messaggio potente che io intravvedo nella Pasqua - e cioè per i cristiani la festa che celebra la resurrezione di Gesù- sta nel fare sempre ricordare, oltre al messaggio di fede, quello della speranza, che resta una potente spinta per uscire dai momenti difficili.
Ho trovato questo passaggio nell’omelia pasquale del del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia: “La speranza cristiana non è riducibile ad uno stato d’animo, ad una disposizione psicologica o emozionale, legata ad un particolare momento e al carattere di una persona che può essere ottimista, pessimista o pragmatica. Tantomeno è qualcosa di vacuo o illusorio; piuttosto è una forza che irrompe nella storia con un dinamismo che trasforma e tutto rinnova.
Jürgen Moltmann, teologo riformato, nella sua “Teologia della speranza” scrive: “Essa [la speranza] non prende le cose così come stanno. Ma come cose che avanzano, si muovono, si trasformano, nelle loro possibilità”.
La scrittrice Susanna Tamaro ha così detto: ”Cercare la speranza e farla crescere, coltivarla in noi stessi e in chi ci sta vicino, non arrendersi a ciò che adesso la società ci impone, alla sua volgarità, alla sua violenza, ma vedere tra queste cose dei segnali di cambiamento, custodirli e alimentarli come nell'antica Roma le Vestali custodivano il fuoco. Senza sonno né distrazione”.

Condividi contenuti

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri