blog di luciano

Nervi saldi sul cambiamento climatico

Chiaro ormai che il cambiamento climatico c’è e che la responsabilità umana esiste. Ciò detto per chiarezza, resta la questione del da farsi. Ridurre le emissioni di CO2 é il giusto mantra, cui si aggiunge l’evidente e densa operatività su come farlo, cambiando tutto ciò che accelera, come conseguenza, l’aumento della temperatura sul Pianeta.
Per ora i governanti del mondo giochicchiano e va dato atto all’Europa del fatto che si è attivata, mentre altri Paesi se ne fanno un baffo.
Fummo - con un gruppuscolo di amici che già sia occupavano della montagna e dei rischi futuri - i primi a riuscire a far inserire un cenno alle conseguenze climatiche possibili sulla e montagne del Mondo nel documento finale del Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, che fu di fatto la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull'Ambiente.
Ora, invece, più di 30 anni dopo, l’emergenza incombe di brutto e la percezione dei famosi cambiamenti allarmano e di sicuro si è perso del tempo, mentre per invertire la situazione ci vogliono decisioni globali che tardano a venire. Quel che è certo è che cresce una preoccupazione generale e esiste persino un velo di angoscia che spinge ad una sorta di cupa rassegnazione che non giova e i catastrofisti tristi o i protestatari chiassosi non aiutano affatto.
È evidente e lo ricorda l’Agenzia europea per l’ambiente che ci sono due parole chiave che qui ricordo.
La prima: «Adattamento» significa anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici e adottare misure adeguate per prevenire o ridurre al minimo i danni che possono causare oppure sfruttare le opportunità che possono presentarsi. Esempi di misure di adattamento sono modifiche infrastrutturali su larga scala, come la costruzione di difese per proteggere dall’innalzamento del livello del mare, e cambiamenti comportamentali, come la riduzione degli sprechi alimentari da parte dei singoli. In sostanza, l’adattamento può essere inteso come il processo di adeguamento agli effetti attuali e futuri dei cambiamenti climatici. 
La seconda: «Mitigazione» significa rendere meno gravi gli impatti dei cambiamenti climatici prevenendo o diminuendo l’emissione di gas a effetto serra (GES) nell’atmosfera. La mitigazione si ottiene riducendo le fonti di questi gas (ad esempio mediante l’incremento della quota di energie rinnovabili o la creazione di un sistema di mobilità più pulito) oppure potenziandone lo stoccaggio (ad esempio attraverso l’aumento delle dimensioni delle foreste). In breve, la mitigazione è un intervento umano che riduce le fonti delle emissioni di gas a effetto serra e/o rafforza i pozzi di assorbimento ».
Dove c’è scritto ”mare” dobbiamo legittimamente scrivere "montagna” in una santa alleanza con tutte le montagne del mondo, iniziando realisticamente dalle Alpi e di questi temi, per fortuna, si parla nella macroregione alpina. Ne sono testimone perché ho partecipato alla recente assemblea di Eusalp,che conta 48 Regioni di 7 Paesi dell’Arco Alpino, svoltasi nel Cantone di San Gallo. Questa istanza europeista è una chiave di volta per avere strategie comuni e scambi di buone pratiche. Penso ad azioni concrete e a campagne informative, che sono indispensabili, così come la formazione al tema dei decisori e delle popolazioni.
Per capirci meglio, ad esempio nel caso della Valle d’Aosta, penso sia giunta l’ora di pensare al coordinamento delle troppe iniziative convegniste o simili che spesso si ripetono e si sovrappongono senza una ratio comune. Questo vale ad esempio sul susseguirsi di diagnosi e previsioni sui nostri grandi malati, i ghiacciai, senza scendere invece a valle e a fondo sulle conseguenze più propriamente umane dell’insieme dei cambiamenti. Mi riferisco alle ricadute concrete sulle vite delle persone, sulle attività economiche, sui territori. Un adattamento che obbliga a prendere coscienza con logica scientifica e con quadro giuridico e di conseguenza a pianificare gli interventi necessari, affinché le emergenze siano già comprese prima che avvengano. Necessita - senza creare ansie nocive e inutili - un’educazione al cambiamento climatico e ci vogliono le cospicue risorse da spendere per tutto quel che necessita.
Il resto è a rischio ripetitività degli allarmi, retorica dell’ ambientalismo ultra, sottostima dei negazionisti e via di questo passo.
Nervi saldi, please!

Se l’Ucraina avesse ceduto?

C’è qualcosa di terribile nella capacità del sistema ormai vastissimo dei media di passare da una tragedia ad un’altra con la stessa sveltezza con cui i trapezisti passano svolazzando da una barra metallica ad un’altra.
Oggi - e certo ne si capisce bene la ragione - tutto si concentra nelle informazioni, per altro difficili da dare nella delicatezza degli equilibri fra vero e falso che fanno parte della logica bellica, su quanto sta accadendo fra Israele e Gaza. Certo non solo in quel lembo di terra, ma più in generale in un’area geografica, il Medio Oriente, che è una polveriera che incide su equilibri globali. La stessa Europa trema perché gli islamisti sono radicati anche sul Vecchio Continente e bisogna prepararsi purtroppo ad una recrudescenza di atti terroristici e affrontare anche il tema di certe tendenze giustificatorie dimostratesi virulente nel caso di Hamas non solo nel seno dell’immigrazione araba, ma anche in parti della politica e della cosiddetta società civile, che purtroppo sa dimostrarsi incivile.
Ma questa sovraesposizione vera e propria, resa tale da un continuo susseguirsi di notizie, di immagini e di commenti, ha oscurato quasi del tutto l’altra guerra, quella davvero vicina a noi, fra Russia che ha invaso e Ucraina che si difende a denti stretti. Anche in questo caso, per lungo tempo, in maniera parossistica, siamo stati letteralmente colpiti da un susseguirsi di notizie nel terribile linguaggio bellico.
Ora, però, dell’Ucraina si parla poco e si rischia di passare da un eccesso ad un giornalismo che ha messo la sordina e questo lo ritengo profondamente ingiusto. Lo è perché quanto sta accadendo non cambia di una virgola la posta in gioco: le mire espansionistiche della Russia, la deriva più che autoritaria di Putin, le complicità che si manifestano nel cuore dell’Occidente sono il segno tangibile del fatto che non ci si può permettere di far cadere nell’ oblio quanto sta avvenendo.
Chiunque abbia a cuore la democrazia e i valori europeisti non può per nulla permettersi dei distinguo rispetto alla posizione da tenere. Stiamo vivendo un autunno che anticipa un inverno che risulterà decisivo e se il fronte di appoggio agli ucraini verrà scalfito potrebbero essere guai seri per l’Europa in primis e per le democrazie occidentali tutte.
Già oggi - lo scrivo con enorme dispiacere - ci troviamo di fronte ad una democrazia che nel mondo, dati alla mano, diminuisce il proprio peso a vantaggio di regimi che vanno dall’autoritarismo alla dittatura. Un fenomeno che vediamo in corso anche in alcuni Paesi dell’Unione europea - pensiamo a Ungheria e Slovacchia - e anche nelle democrazie più vecchie lo scollamento verso certi principi cardine preoccupa e la Storia insegna (e gli anni Venti del secolo passato ammoniscono, pur con scenari differenti) che il peggio può sempre arrivare con una velocità inimmaginabile.
Per questo l’Ucraina, con questo esercito popolare e di leva, finisce per essere il nostro esercito, che combatte palmo a palmo una guerra violenta e senza sbocchi apparenti con diplomazie impotenti e un diritto internazionale sempre più incapace di reggere le sorti dell’umanità.
Una debolezza terribile.
A ragionare più a fondo basta un pezzo di intervista dell’Express a Olena Zelenska, moglie del Presidente ucraino: “Il est primordial de ne pas laisser l’attention du monde se détourner de l’Ukraine. Nous constatons déjà que l’aide militaire en direction de notre pays arrive trop lentement pour permettre un changement positif sur la ligne de front. Cette aide est trop lente, trop tranquille. On dirait que l’Europe reste placide et ne semble pas trop effrayée par la perspective du rapprochement des frontières russes dans sa direction. Cette perspective est pourtant bien réelle ! Réfléchissons à ce qui se passerait si l’Ukraine n’avait pas tenu”.

Il dialogo sulla montagna

Capita sempre così dovunque io vada. L’ultima esperienza a Premia in Val Formazza, paesino vicino alla più nota Crodo, località del celebre Crodino, che adesso una multinazionale produrrà altrove.
Zona di comuni walser e lo si vede subito dalle case. Attorno le loro montagne, che ricordano alcune zone valdostane di media montagna.
Ci sono stato per parlare di come vedo il futuro delle nostre Alpi. L’ho fatto di fronte ad un pubblico attento con la sensazione lì ed altrove, lungo tutto l’Arco alpino, di essere a casa. Sensazione forte che ho avuto anche in altri massicci montani, che mostrano le analogie derivanti dagli ambienti naturali e dalle culture nate in ambienti simili e questo l’ho visto non solo in Europa, ma anche in altri Continenti. Dico sempre, scherzando ma non troppo, che esiste una specie di Internazionale dei montanari, che naturalmente si declina a seconda dei gradi di sviluppo e le Alpi (come mostra la parola alpinismo che si pratica non solo da noi) sono da sempre un punto di riferimento.
Parlare dei problemi della montagna vuol dire anzitutto, nel caso delle nostre vallate della macroregione alpina (che deve essere sempre più istanza politica), avere consapevolezza della profondità storica e del fatto che si tratta di una realtà forgiata dalla presenza umana. Il popolamento delle Alpi è tema davvero antico e lo chiarisce in modo evidente quel luogo misterioso che è l’area megalitica di Saint-Martin de Corléans, che ci parla attraverso 6000 anni di storia.
Chi si occupa dei problemi della montagna deve sentirla questa eredità e di chi nelle diverse epoche ha interpretato i modi di viverci. Oggi, ad esempio, a parlare delle montagne sono spesso gli alpinisti e la loro visione è interessante, ma il fenomeno di cui sono interpreti è nato due secoli e mezzo fa e dunque vedono solo un piccolo pezzo di uno scenario più vasto e ci vuole cautela quando alcuni si ritengono interpreti di un tutto ben più complesso.
Per questo bisogna dialogare sul futuro, perché nessuno ha la verità in tasca. Men che meno la verità ce l’ha certo ambientalismo da conventicola che aborro, perché vorrebbe tornare ad un mitico passato di montagne selvagge con l’uomo messo in un cantuccio in una vita parca, quasi monastica, sfuggendo alla modernità consumista e…capitalista. Lo stesso che in queste ore plaude con grande godimento al cattivo tempo che ha impedito le due gare di Coppa del mondo fra Zermatt e Cervinia sul ghiacciaio della Valtournenche.
Gli argomenti di confronto da esaminare sono tanti e li ho ricordati. Il cambiamento climatico da affrontare senza chiudersi in eremi pensosi, la digitalizzazione che è una finestra sul mondo e non una diavoleria, la crisi demografica da affrontare senza pensare a donne fattrici per forza, l’immigrazione da regolare ma priva dell’illusione che qualunque cultura possa attecchire, il tema dei grandi predatori che rischiano di espandersi senza fine, l’idroelettrico come ricchezza che può figliare il vettore idrogeno, l’agricoltura di nicchia che può crescere, il turismo che resta una ricchezza e prevede clientele di vario genere e lo sci resta per ora non sostituibile e chi ne predica la morte subitanea è un bugiardo.
Certo bisogna organizzarsi bene nella discussione complessiva e in democrazia lo devono fare soprattutto gli eletti e non i gruppuscoli tipo autocoscienza e chi decide lo deve fare in connessione con quella parte di società che vuole crescere e migliorarsi e non con chi fa della critica perenne la noiosa colonna musicale della propria vita.

Il timbro della faziosità

Che le ali estreme della politica si estremizzino sempre più l’ho detto più volte e il caso italiano e persino quello valdostano ne sono un segno tangibile piuttosto deprimente.
Spiace, però, che si estremizzino anche associazioni umanitarie come Medici senza frontiere (in Italia ormai costantemente presente nelle polemiche politiche) o la più nota a favore dei diritti civili come Amnesty International, verso le quali ho sempre provato viva simpatia e ho persino sostenuto.
Il caso più evidente è certa ambiguità rispetto alle vicende di Israele e di Gaza, dove l’equilibrio è crollato e questo è valso anche sull’aggressione all’Ucraina. Ci sono temi su cui l’ambiguità oscura la credibilità e svela una militanza rispettabile in sé, se non fosse stata forgiata in una area progressista vasta che invece è diventata faziosa scelta di campo in vicende complesse e con intromissioni politiche troppo di parte.
Ne scrive autorevolmente Éric Chol, direttore della Redazione, su l’Express con un titolo che dice tutto “Quand Am­nes­ty In­ter­na­tio­nal ne sait pas ap­pe­ler un chat un chat”.
Così scrive: “Longtemps, le mot humanitaire faisait naître chez chacun de nous une part de rêve. L’idée du dépassement de soi, de l’altruisme, de l’ouverture au monde, surtout lointain – on ne calculait pas encore le coût carbone des voyages en Afrique ou en Asie… Des clichés ? Sans doute, mais partagés par des générations à la fin du xxe siècle.(…) Le mur de Berlin tombait, on chantait pour les Ethiopiens qui crevaient de faim, on creusait des puits au Soudan, on déminait les rizières du Cambodge… C’est ainsi que la planète ONG a longtemps prospéré, avec ses armées de bénévoles, ses parkings de 4x4 garées dans les capitales de ce qu’on appelait à l’époque le tiers-monde, ses tombereaux de donations et de subventions, ses rites, ses injonctions. C’était des gens de bien, répétant, tel un mantra, la célèbre citation d’Henry Dunant, fondateur de la CroixRouge : « Seuls ceux qui sont assez fous pour penser qu’ils peuvent changer le monde y parviennent. » Leurs franchises s’appelaient Oxfam, Amnesty International, Médecins sans frontières…”.
Poi la triste trasformazione: ”C’était le monde d’autrefois. Celui où les ONG prenaient le parti des faibles et des victimes, sans choisir leur camp. Sans tomber dans le panneau de l’idéologisation à outrance, de l’anticapitalisme forcené (un peu quand même) ou de l’antisionisme exacerbé. On appelait alors un chat un chat. Un terroriste un terroriste. Sans avoir recours à mille circonvolutions pour éviter d’utiliser ce qualificatif pour désigner le Hamas, responsable de la tuerie de 1 400 personnes le 7 octobre dernier. C’est pourtant ce que vient de faire le président d’Amnesty International France, qui, en en se réfugiant derrière une argutie juridique calamiteuse, a refusé d’employer ce terme. A-t-il au moins regardé les images de cette boucherie nauséabonde, à laquelle se sont livrées ces hordes d’assassins, assoiffés de sang ? Ou préfère-t-il s’en tenir aux éléments de langage, diffusés depuis des mois par une ONG devenue monolithique, à l’instar de ce rapport publié l’an passé : « L’apartheid commis par Israël contre les Palestiniens : un système cruel de domination et un crime contre l’humanité ». Cachez donc ce 7 octobre que je ne saurais voir…
En matière d’interprétation de l’histoire, Amnesty International a déjà un lourd passif. N’a-t-elle pas, en août 2022, renvoyé dos à dos Ukrainiens et Russes dans un rapport scandaleux ? Celle qui dirige l’organisation au niveau mondial, la Française Agnès Callamard, expliquait sans ciller : « Nous avons documenté une tendance des forces ukrainiennes à mettre en danger les civils et à violer les lois de la guerre lorsqu’elles opèrent dans des zones peuplées. » Quelques mois plus tard, une enquête interne mettra en cause les conclusions de ce rapport. Mais en refusant d’appliquer le mot terroriste au Hamas, le président d’Amnesty International France apporte la preuve que son ONG est devenue le petit télégraphiste de Poutine et du Hamas”.
Uguale storia in Italia con un certo Riccardo Noury di Amnesty che ormai milita palesemente nella sinistra più estrema a nome dell’associazione e chi segue i Social ha letto in quanti hanno annunciato che cesseranno le donazioni sia ad Amnesty sia a Medici senza Frontiere, che su Gaza ha scritto cose infondate su fatti precisi, dimostrando una mancanza di equilibrio.

L’Europa per crescere

Nelle scorse ore si è ricordato un anniversario marcante la storia europea: 34 anni fa cadde il muro di Berlino. Un passaggio essenziale in vista del successivo allargamento dell’Unione europea ai Paesi dell’Est e del Centro Europa, prima prigionieri del comunismo sovietico.
Un processo di progressivo inserimento nella casa comune che oggi vede in prospettiva l’arrivo di cinque Paesi balcanici, della Moldavia e della povera Ucraina e pure la Svizzera - nostra confinante - vede un nuovo movimento pro europeista. Lo stesso Regno Unito, tanto per essere chiari, si trova a fare una riflessione critica ormai maggioritaria sulla Brexit e i suoi esiti.
Ecco perché ho voluto invitare ad Aosta una personalità della struttura amministrativa del Parlamento europeo, Lauro Panella, che guida il Servizio Ricerca del Parlamento europeo, per presentare all’Università della Valle d’Aosta uno studio molto interessante. Il titolo è suggestivo: ”
Accrescere il valore aggiunto europeo in un'epoca di sfide globali. Mappatura del costo della non Europa (2022-2032)”.
La sostanza è che una serie di azioni di ”più Europa” negli spazi di ”Non Europa”, che potrebbe portare - secondo lo studio - a ”ulteriori 2 800 miliardi di EUR, portando così il PIL reale totale a un valore di quasi 20000 miliardi di EUR nel 2032. Si tratta di una stima piuttosto ambiziosa ma ragionevole, in quanto si avrebbe un tasso medio annuo di crescita del PIL reale del 2,9 % nel periodo in questione”.
Cito alcune misure possibili:
Completamento del mercato unico delle merci: migliorare l'attuazione e l'applicazione, ridurre l'eccessiva complessità amministrativa, contrastare i requisiti nazionali superflui e affrontare le norme di etichettatura non armonizzate e altri ostacoli che ancora si frappongono al commercio a vari livelli.
Completamento del mercato unico dei servizi continuare ad approfondire la fornitura transfrontaliera di servizi, ridurre le distorsioni indotte dalle preferenze nazionali, ampliarle armonizzazione, ridurre gli oneri amministrativi e contrastare gli ostacoli alla prestazione transfrontaliera di servizi e il persistere di requisiti eccessivi.
Politica di tutela dei consumatori: fornire ai consumatori informazioni pertinenti sulle garanzie commerciali di durabilità e sugli aggiornamenti di software, vietare le pratiche relative all'obsolescenza precoce, affrontare la frammentazione delle norme sul credito al consumo e adattare le norme in materia di sicurezza dei prodotti alla luce delle nuove tecnologie.
Spazio unico europeo dei trasporti:,sostenere il passaggio a modi di trasporto pubblico sostenibili, eliminare le strozzature infrastrutturali e il sottosviluppo che ostacolano la connettività verso tutte le regioni dell'UE e tra di esse, sviluppare la multimodalità, migliorare la sicurezza e l'affidabilità e costruire sistemi di trasporto orientati ai passeggeri.
Protezione delle indicazioni geografiche per i prodotti non agricoli: istituire una protezione a livello dell'UE per le indicazioni geografiche di prodotti non agricoli e garantirne l'accessibilità, l'equità e la capacità di trasmettere la reputazione e generare fiducia.
Naturalmente ci sono altre misure, come la trasformazione dei sistemi energetici dell'UE e la prevenzione degli impatti dei cambiamenti climatici, la trasformazione digitale. Mentre in materia economica si segnalano il coordinamento più efficace della politica di bilancio e sostenibilità delle finanze pubbliche, il completamento dell'unione bancaria, l’integrazione e la resilienza dei mercati finanziari.
Vengono poi segnalate priorità da valorizzare come il
programma Erasmus +, i diversi programmi di ricerca, la valorizzazione delle culture e la libertà nei media. Vengono segnalati terreni su cui lavorare, come la Sanità, la Farmaceutica, il Lavoro, la lotta alla Povertà, i Fondi strutturali e la Digitalizzazione.
Ci sono poi i capitoli sulla Giustizia e i Diritti, la Parità, la Difesa comune.
Si tratta ovviamente di una sintesi. Credo che a tutto ciò si debba aggiungere, a mio avviso, una Politica più europea, che sia però rispettosa della sussidiarietà e dunque dei diversi livelli di Governo, in cui le Regioni contino di più e non siano gli Stati a farla troppo da padroni a Bruxelles. Fondamentale e assai positiva - e lo studio la cita - la cooperazione transfrontaliera, che resta una chance essenziale per la Valle d’Aosta.

Quel baco nei pensieri

Capita di avere - e mi auguro si consideri almeno che lo faccio in buona fede - un rovello o meglio un baco che torna nei miei pensieri.
Lo faccio nella considerazione che nel dibattito politico ci debba essere il tentativo di trovare quel che unisce piuttosto che quel che divide. E quel che divide dev’essere oggetto di confronto e senza questa capacità che necessità di impegno e di lealtà si entra, come dice una celebre frase latina, nel “Bellum omnium contra omnes”, che significa “guerra di tutti contro tutti”
Proviamo a partire - per una sorta di esercizio di stile - da alcune frasi contro gli ideologismi, che sono le logiche che accecano:
1. "L'ideologismo acceca la mente e impedisce il pensiero critico."
2. "Le rigide ideologie spesso ignorano la complessità della realtà."
3. "Invece di aderire ciecamente a un'ideologia, dovremmo cercare soluzioni basate sull'evidenza e sul buon senso."
4. "Le ideologie estreme possono dividere la società anziché unirla."
5. "Il dogmatismo ideologico ostacola il progresso e l'innovazione."
Proviamo a sintetizzare la logica. La furia ideologica, spinta da un'eccessiva rigidità di pensiero e l'incapacità di considerare altre prospettive, può portare a tensioni e conflitti. È importante promuovere il dialogo e la comprensione reciproca per cercare soluzioni pacifiche ai problemi.
Sarò ingenuo, naïf o chissà cosa. Ma a certe cose credo fermamente e - al di là di una vis polemica che ogni tanto esercito - ascolto volentieri pensieri diversi rispetto ai miei. La politica è spesso considerata l'arte del compromesso, perché coinvolge la negoziazione e la ricerca di soluzioni che tengano conto delle diverse opinioni, esigenze e interessi dei cittadini. I politici spesso devono trovare - questo è uno dei loro doveri - un equilibrio tra diverse prospettive al fine di prendere decisioni che siano accettabili per la maggioranza, che in democrazia fino a prova contraria ha obblighi rispetto a chi ha l’ha scelta per governare. Forse banale riaffermare come il compromesso è un elemento chiave nel processo decisionale politico e può contribuire a mantenere la stabilità e la coesione nella società. Per questo, a rischio di risultare ossessivo, non sopporto più le logiche settarie.
Penso ai problemi della montagna che seguo da tempo per me ormai immemorabile. Guardo con stupore quando ci si concentra su questioni che vengono enfatizzate rispetto alla vastità dei problemi da affrontare. Esiste - per fare due esempi attuali - una concentrazione di critiche sul possibile futuro delle Cime Bianche per collegare sciisticamente Cervino e Monterosa e c’è chi si straccia le vesti per la pista di sci sul ghiacciaio della Valtournenche per la Gara di Coppa del Mondo.
Tutto legittimo, ma mi chiedo sé questa logica di fissazione vera e propria abbia una sua logicità e non finisca per distogliere l’attenzione rispetto a questioni ben più vaste e cruciali. E sé questa marea montante di polemiche non sia, in questa logica di eccessi, qualcosa che serve più in una logica di propaganda come elemento aggregante per le proprie “truppe”, piuttosto che ragionare attorno a soluzioni. Più facile fomentare manifestazioni che confrontarsi con discussioni realistiche, che però obbligherebbero a disfarsi di cascami ideologici e convincere militanti caricati come molle non sarebbe facile e per loro la ricerca di punti di equilibrio risulterebbe di certo deludente.
Mi spiace che sia così. Resto convinto che - specie su sfide che si preannunciano difficili per il futuro della montagna - sia obbligatorio tagliare le forme di estremismo: chi è antagonista duro e puro si dimostra sordo rispetto alle posizioni altrui e danneggia tutti per coltivare il proprio orticello di militanti.

Vai col liscio!

Che flash dal passato che ogni tanto ritornano nella vita!
Sono stato invitato ad una festa di compleanno a Telecupole. Per chi ha vissuto l’epoca pionieristica della liberalizzazione dell’etere, con la fine del monopolio radiotelevisivo della Rai, questa tv piemontese fu sin da subito un caposaldo. Era nata nel 1979, all’inizio degli anni ruggenti delle “private”, in una grande costruzione di cemento, davvero a forma di cupola, a Cavallermaggiore, a metà strada fra Torino e Cuneo. 
L’ idea di fondare una emittente con forte indirizzo regionale venne a Pietro Maria Toselli, che ancora oggi ho visto in cabina di regia con l’entusiasmo del precursore. Certo le condizioni di quell’epoca sono cambiate e l’offerta televisiva si è moltiplicata a dismisura. Personalmente credo che esistano ancora spazi per la televisione locale, ma mantenere gli equilibri finanziari non è semplice, così come seguire l’evoluzione tecnologica.
Telecupole ha inventato e pratica ancora oggi una formula singolare: sotto la cupola c’è infatti uno studio, che è anche pista da ballo, che in certe occasioni diventa anche un ristorante. Si può definire una grande discoteca o, senza alcuna accezione negativa, una balera (parola di origine romanza che viene da ballo).
Ebbene, una serata in quel luogo, con uno spettacolo in favore di telecamere (interessante l’uso di telecamere senza cameraman e solo un operatore con telecamera a mano si aggirava nella sala), è stato come uno studio sociologico o persino antropologico.
Il pubblico che ho visto era mediamente di età elevata, direi fra i settanta e gli ottant’anni, che era lì per una concezione precisa dello stare assieme. Mi riferisco al ballo, antica pratica umana, che accomuna tutte le civiltà. E mi colpiva in queste persone di una certa età la trasformazione in pista, dove come d’improvviso il corpo riassume una sua levità e i più bravi smentiscono nei meccanismi acquisiti il peso della vecchiaia con quella ricerca spesso di un’eleganza formale nel vestire, di cui troppo spesso si è persa la traccia.
Nel locale di Cavallermaggiore a fare la parte del leone era il liscio. Un ballo da sala nato in Romagna, quindi tipicamente italiano, tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo.
Il suo nome è dovuto al fatto che i ballerini usano "scivolare" con i piedi con quelle movenze armoniose che tutti noi conosciamo. Io non so ballarlo (e quando l’ho fatto la mia goffaggine era preclara), ma ricordo locali storici valdostani dove sono stato, come il celebre Divina alle porte di Aosta raso al suolo anni fa o i balli al palchetto della mia giovinezza o ancora certi miei reportage tv sulle scuole di ballo al CRAL Cogne, dove un mondo ruotava attorno al ballo in quei locali che rappresentavano una realtà che non era solo quella dei dipendenti della grande fabbrica siderurgica.
Quel che colpisce è una frattura generazionale e cioè di come il liscio sia stato in buona parte già sostituito nella mia generazione e ancor di più da quelle successive dalla musica pop nelle sue diverse varianti e da balli meno codificati e più liberi.
Ma per i giovani e giovanissimi il fenomeno vero è la riduzione al lumicino delle discoteche, luogo cult solo sino a pochi decenni fa.
Questo cambia in profondità i comportamenti, anche se in realtà - lo si vede in molte occasioni - l’aspetto gioioso e liberatorio del ballo si mantiene tutto intatto.
Una contraddizione difficile da capire.

Venditori di leadership

Capita delle volte di non riuscire a scrivere qualche cosa di veramente efficace su di un tema. E fa piacere scoprire chi lo ha fatto.
Pensavo ad un argomento riassumibile in questo modo. Più di una volta in vita mia qualche amico mi ha invitato a partecipare a riunioni o a conferenze con cui motivatori di vario genere (alcuni si autodefiniscono coach motivazionali e il limite del coaching sta ancora nell’assenza di un inquadramento normativo, come un Ordine o un Collegio a vantaggio di chi esercita seriamente) ti spiegano la vita e ti aiutano a diventare sicuro di te in occasioni pubbliche e persino - udite, udite! - a diventare un leader.
Intendiamoci alcuni si autodefiniscono coach motivazionali e danneggiano il coaching serio, che paga l’assenza di un inquadramento normativo, come un Ordine o un Collegio professionale.
Ricordo - tornando al punto - l’entusiasmo di uno fra questi neofiti del motivazionale che mostrava i filmati del suo “leader” e poi, a sua volta, obbligava i dipendenti ogni mattina ad ascoltarlo per “migliorare sé stessi” e “sfondare nella professione”. Una sorta di persecuzione quotidiana. Altrettanto inquietante l’istruttore di palestra che mi propose di fare con lui un corso per diventare un bravo oratore, perché lui “aveva fatto una formazione” di duo e tre finesettimana con apposito attestato.
Ora leggo su L’Express la filosofa Julia de Funés che svela la pochezza di certi guru, che ammaliamo i propri adepti come avviene nelle sette.
Così dice: “On distingue généralement trois types d’autorité. L’autorité de l’antériorité, fondée sur le respect de l’ancienneté. L’autorité reposant sur le pouvoir de la supériorité hiérarchique. Et l’autorité purement charismatique liée au rayonnement d’une personnalité. Et c’est bien de celle-ci que les formations aussi coûteuses que stéréotypées en leadership prétendent s’occuper depuis des années.
« Renforcer sa confiance en soi, gagner en efficacité, devenir impactant, savoir parler en public, adopter la posture managériale » sont quelques-unes des promesses que ces formations proposent aux managers fraîchement promus”.
Anni fa fu un istruttore di ginnastica a propormi di fare un corso per parlare in pubblico e non sto a dirvi quale fosse il suo livello culturale, ma aveva fatto un corso di un finesettimana per insegnare a farlo!
Prosegue l’articolo: ”Or à la différence des contes de fées qui métamorphosent le crapaud en prince charmant, rares sont les méthodes qui parviennent à transformer un pusillanime en charismatique hors pair. Les techniques s’avèrent pour la plupart superficielles et illusoires car elles semblent ignorer que l’autorité ne s’enseigne pas. Et cela pour deux raisons de fond.
La première tient à la nature même de l’autorité, qui en empêche tout simplement l’apprentissage. On enseigne des choses stables, fondées, établies. Or l’autorité se caractérise justement par sa contingence, sa volatilité, son incertitude, puisqu’elle n’a d’autre légitimité que celle d’une puissance personnelle conférée par autrui. J’aurai beau apprendre tous les trucs et astuces pour devenir charismatique, si autrui décide et juge que je n’ai aucune autorité, je n’en aurai jamais aucune. Autrement dit, l’autorité dépend d’un avis extérieur qu’aucun apprentissage ne peut jamais garantir”.
La seconda considerazione è egualmente convincente: “La seconde tient à la singularité de l’autorité, que ces formations nient en voulant l’uniformiser par des modes d’emploi, des kits comportementaux, qui s’adressent à chaque participant comme à des centaines d’autres. Par quel miracle l’autorité pourrait-elle faire l’objet d’une recette commune ? Comment le charisme pourrait-il se réduire à un code de conduite admis ? Ces formations ne peuvent qu’aboutir pour la plupart à un formatage, à l’adoption d’une posture, qui, comme toute posture, réifie, chosifie, homogénéise, et ne s’avère finalement qu’une imposture.
Si l’autorité ne peut faire l’objet d’aucun apprentissage, d’où vient alors ce charme qu’est le charisme (charys en grec signifie charme)? De la singularité, de la puissance de l’individu, dit Nietzsche. Celui ou celle qui séduit et impacte puise sa force dans une « volonté de puissance ». Cette volonté de puissance n’est pas une volonté de pouvoir qui cherche à diminuer les autres pour mieux se rehausser soimême. Une volonté de puissance se veut elle-même, ne désire rien d’autre que son accroissement, sa propre intensification, sa pulsation permanente.
Il n’y a ici ni outil, ni méthode, ni recette, simplement l’énergie et le courage de sa propre volonté. Désirer ce qu’on désire, avoir envie de dire ce que l’on est en train de dire, est bien plus opérant que d’adopter la « posture » invoquée comme instrument de communication et d’influence sur autrui. Passer du pouvoir sur autrui à la puissance du soi, autrement dit passer de techniques formatées à une authenticité assumée, s’avère bien plus attirant et efficace que n’importe quel catéchisme comportemental”.
Dopo aver citato diversi casi di leadership, così chiude il ragionamento che affossa i venditori di fumo: ”Le charisme est affaire de style, de singularité, de personnalité, et ne peut faire l’objet d’aucun formatage postural. Mais dans un monde où l’essor du développement personnel finit par dépersonnaliser et gommer les singularités de tout un chacun par l’uniformisation des recettes qu’il marchande, où l’individualité semble toujours plus subordonnée aux techniques comportementales, cela peut paraître réconfortant pour les managers seuls face à eux mêmes de se raccrocher aux branches des conduites guidées. C’est oublier l’essentiel : le charme vient avant tout du courage d’être soi-même”.
Essere sé stessi: questa resta la chiave di lettura prioritaria e lo dico con l’esperienza fortunata di chi ha incontrato in politica molte persone carismatiche.

La politica guerriglia

Vivono in città stravolte dalla cementificazione e dall’inquinamento, dove la vita è diventata impossibile, e poi - malgrado la loro grama condizione cittadina su cui non sempre si mobilitano - con uno scatto di orgoglio firmano petizioni contro una pista di sci sul ghiacciaio, che in gran parte non sanno neppure dove sia. Lo fanno per qualunque cosa li infastidisca, immaginando una montagna disneyana, in cui questi montanari che ci vivono sono una “rottura” che turba la Natura. Lassù dovrebbe essere un luogo selvaggio, senza questi Homo Sapiens alpini che “rompono”.
Molti in questo loro estremismo sono influenzati dagli esperti certificati della montagna, di cui - quando leggi le storie personali - ti chiedi come diavolo abbiano fatto a riciclarsi dalle loro vecchie radici protestatarie sessantottine e post sessantottine. Queste eredità contestatarie li hanno trasformati a pieno in guru delle vette e dintorni. Loro hanno sempre ragione e ha torto chi la montagna la vive davvero. E certo la grave colpa ce l’abbiamo nell’aver lasciato spazi a chi piano piano si è impadronito di argomenti su cui, sproloquiando, sono ormai diventati degli intoccabili in forma di oracoli. La logica: imporre regole e indicare programmi da confusi battitori liberi, il cui leitmotiv resta quello di essere contro e dire di No.
L’avversario è il buon selvaggio, in primis incarnato nei politici locali, dipinti come speculatori in pectore, interpreti di nuove forme di cretinismo, perché abbacinati dai soldi e dal desiderio di stravolgere i propri luoghi natii. Persone regolarmente scelte in democratiche elezioni che sarebbero così stupide da segare il ramo su cui sono sedute.
Torniamo alle petizioni, perché così scrivendo mi sono fatto già qualche nemico in questa combriccola di professori che spiegano alle popolazioni cosa debbano fare nel seguire quanto loro vogliono. Quando si scatena la polemica delle truppe si va avanti come primo attacco con le petizioni militanti.
Ma si sa che questa della petizione e della firma sono come un’arma spuntata, la cui logica va svelata. Per altro è possibile che tanti dei firmatari facciano parte della vasta platea di chi non vota più alle elezioni, ma per contro sono iscritti a Change.org (sigh!).
Una piattaforma che comunque declina responsabilità sulla raccolta firme con formule del tipo “Le petizioni e le campagne su Change.org rappresentano le differenti opinioni di milioni di persone. Non ci assumiamo la responsabilità per le loro opinioni, né monitoriamo i contenuti sotto il profilo della rispettiva legalità o esattezza”.
Sito aperto, dunque democratico, ma le clausole di sgravio da qualunque implicazione dimostrano che non si escludono rischi di tracimazione…
Una firma non si nega a nessuno, si potrebbe dire e verrebbe voglia di rispondere pan per focaccia a certi moderni Soloni con un profluvio di petizioni sulle loro questioni.
Ma proprio le le petizioni, ormai allargatesi a dismisura su qualunque argomento dello scibile umano, crollano sotto il peso di un loro utilizzo in eccesso sino a sfiorare di tanto in tanto il comune senso del ridicolo.
È bene in più ricordare nell’occasione la magia moltiplicatrice delle scatole cinesi, frutto di certi militanti a tempo pieno che nascondono dietro vesti candide l’animo da guastatori da guerriglia mediatica e pure populista. È una piccola falange macedone, assolutamente minoritaria alle elezioni, che però ha capacità miracolistica di moltiplicare pani e pesci con una guerriglia mediatica che ne amplifica le forze. Per cui, quando orchestrano campagne, usano un effetto domino: un gruppo comincia e si chiama A, si aggiunge B con diversa denominazione e più o meno gli stessi componenti, che lasciano a loro volta il testimone al Comitato di sodali denominati C e poi arriveranno D, E, F, ma sono sempre le stesse facce con cappelli diversi.
Intanto in Consiglio regionale spuntano la force de frappe rossoverde (due) con interrogazioni, interpellanze e mozioni e gli amici giuristi preparano pareri pro veritate (la loro…) e non manca mai chi sceglie le denunce di vario genere nelle differenti giurisdizioni, perché la via giudiziaria ha un effetto di lunga durata per via dei tempi della Giustizia e questo tiene in caldo le polemiche.
Un meccanismo ben oliato che trasforma nani politici in giganti, agevolati da raffiche di comunicati stampa con giornalisti che - specie se amici - non tengono conto di criteri proporzionalistici e pubblicano, senza forma alcuna di contraddittorio, quanto scritto con ripetitività assillante. Così grida isolate sembrano cori poderosi grazie all’accurata propaganda da agit-prop.
Penso che a questa macchina infernale non ci si debba assuefare e anzi si debbano contrastare queste azioni abilmente concertate in una logica di perenne e diuturno attacco.
“Non ti curar di loro…”: lo abbiamo detto spesso e invece credo sia ora di disvelare in modo sistematico ai cittadini le attività e le informazioni distorte che rischiano di stravolgere la realtà, lordando l’immagine di comunità intere.

Il silenzio delle campane

“Convoco, signo, noto, compello, concino, ploro: arma, dies, horas, fulgura, festa, rogos.
Io raduno, segno, noto, stimolo, canto, compiango: le guerre, i giorni, le ore, i temporali, le feste, gli incendi.
(Iscrizione su una campana)”

Leggo questa storia delle campane di Fontainemore, paese di montagna e, comunque la si giri, mi colpisce ma non mi stupisce. Mi sembra significativa dell’aria dei tempi in cui in molti casi si sfalda l’aspetta comunitario, che è fatto di tradizioni del passato. Fra queste figura il tempo scandito dai campanili, di cui siamo eredi e a nostra volta dovremmo trasferire la profonda ragione culturale e non solo di fede a chi verrà.
Ha scritto il monaco Enzo Bianchi: “Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da «difensori civici», quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico!”.
Riassumo in questo filone quest’ultima storia che colpisce ed è avvenuta, come dicevo in premessa, nel paese della Valle del Lys. Dapprima c’è stato un divieto allo scampanio notturno delle campane della chiesa parrocchiale, ottenuto dalle autorità ecclesiastiche in risposta alle richieste di un recente residente che lamentava di essere disturbato dal loro ripetuto suono, che gli impediva di dormire. Ora - se ho ben capito - la stessa persona vorrebbe limitarne all’essenziale l’uso anche di giorno per via dei suoi turni di lavoro, che prevedono anche un suo eventuale sonno diurno. Insomma: campane à la carte, come desidera il signore. Certo il suo diritto a dormire va contemperato con il radicamento delle campane nella coscienza popolare, ma ci vorrebbe modus in rebus e non la richiesta così reiterata di silenziare...
Par di capire, tuttavia, che si tratti di una posizione solitaria, dimostratasi comunque efficace sino ad ora e la battaglia forse diventerà persino giudiziaria. Spiace che questo avvenga e trovo che sia un errore ogni demonizzazione (scusate il gioco di parole) di quelle campane, che suonano non solo nel Capoluogo, ma nelle diverse frazioni di Fontainemore dotate di quelle cappelle di frazione che sono il segno di una ramificata devozione popolare
Ricorda in un suo libro sul Medioevo Johan Huizinga: “C’era un suono che riusciva sempre a sovrastare tutto il fragore dell’esistenza affaccendata e che, per quanto disordinato e tuttavia mai confuso, sollevava temporaneamente ogni cosa in una atmosfera di ordine: il suono delle campane. Le campane erano nella vita di tutti i giorni come spiriti benigni ammonitori che, con voce familiare, annunciavano ora lutto, ora gioia, ora riposo, ora ansia, ora chiamavano a raccolta, ora esortavano”.
Vale la pena di ricordare - lo fa il sito turistico della Regione Valle d’Aosta- di come la parrocchia attuale sorga laddove ci fu una prima chiesa, da cui potrebbe persino derivare il toponimo che dà il nome al Comune: Fontainemore: “La tradizione dice che nel 543 il monaco San Mauro, attraversando il colle della Barma, giunse da Oropa in un minuscolo paese della Valle del Lys. Qui si mise a pregare nella piccola piazza, da dove sgorgò una vena d’acqua. Egli esortò la popolazione a edificare una cappella in onore di Sant’Antonio Eremita, cosa che avvenne infatti nel VII secolo. E’ così che fu dato al paese il nome di “Fontaine Maur” Fontainemore, per ricordare il Santo e la fonte”.
Che chiunque si trovi ad abitare in questo paese lo sappia e sopporti le campane per il loro significato che va al di là del semplice suono.

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