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10 dic 2025

“Primum vivere” e il diritto alla felicità

di Luciano Caveri

Capita di pensare a quanti problemi si debbano affrontare ogni giorno e spesso non sono così grandi, ma esiste spesso la tendenza ad ingigantirli. Estremizzando, vale la sottile ironia di Mark Twain: “Ho avuto molti problemi nella mia vita, la maggior parte dei quali non sono mai successi”.

Poi vieni a sapere di un lutto, di una malattia, di una sciagura ed è come se ci si trovasse a resettare i propri pensieri rispetto alle priorità, quelle vere.

Mi avevano impressionato i pensieri di Tiziano Terzani nel suo “Un altro giro di giostra”, quando rifletteva sulla malattia come rivelazione: mentre prima molte questioni lo agitavano o lo irritavano, la diagnosi lo costringeva a “ripulire” la vita, distinguendo ciò che è davvero essenziale da ciò che è soltanto rumore di fondo.

O penso - situazione certo estrema, ma che segna le vite, come dimostra la fine tragica di Primo Levi - a Viktor E. Frankl con il suo “Uno psicologo nei lager”, quando descrive come l’esperienza estrema della sofferenza cambi radicalmente la scala dei valori, riportando l’essenziale al centro.

Penso ancora ad una vecchia massima, che mi capita di adoperare di tanto in tanto e che mi rode sempre quando sono in fasi di passaggio della mia vita, ma penso che abbia in generale un valore istruttivo.

Si tratta di quel «primum vivere, deinde philosophari» (dal latino «prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia»). Frase ripetuta talvolta, anche con significato estensivo, come richiamo a una maggiore concretezza e ad una più forte aderenza agli aspetti pratici e più semplici della propria esistenza. Frase che viene tradizionalmente attribuita al filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), ma che è probabilmente molto più antica, visto che in tanti prima ci hanno di sicuro pensato.

Un caso evidente è Seneca con il suo ““Il tempo che ci è stato dato non è poco; ne sprechiamo molto.” Quando accade qualcosa che ci scuote o direttamente o indirettamente, il tempo riacquista improvvisamente peso e significato.

E' un richiamo a valorizzare valori e affetto di quella quotidianità che spesso diamo come acquisita.

Mi ha sempre fatto impressione quel “perseguimento della Felicità" ("pursuit of Happiness"), che è menzionato nella Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America (4 luglio 1776), che è stata fonte di ispirazione fondamentale per il costituzionalismo moderno e per numerose Carte Costituzionali successive in tutto il mondo.

La celebre frase recita: ”Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità”.

Si ritrova in questi richiami l’insieme di principi del mondo illuminista e di certa, pur ingenua, massoneria delle origini.

Mi ricordavo e l’ho ritrovata una "Bustina" dell'"Espresso" di Umberto Eco, piena della sua vena sarcastica e del suo buonsenso, quando diceva a commento di questa frase: “Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell'obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche”".

Aggiungeva argutamente più avanti: “La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l'amato o l'amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l'esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l'Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione. Inoltre l'idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l'infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista”.

E poi il ragionamento, che qui sintetizzo, si conclude in realtà con una sola frase, che trovo inciti alla forza della Politica buona, come elemento che concilia le speranze personali con il bene comune: “È che la Dichiarazione d'Indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d'infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra”.

Insomma, la componente più intima e personale di felicità scende e sale naturalmente secondo le circostanza e scegliendo di valorizzare quanto di bene e di bello talvolta diamo per scontato.

Ma in fondo il messaggio della vita dovrebbe essere - e qui sta forse il vero scopo della Politica, oggi ridotta per molte ragioni a zerbino su cui pulirsi i piedi - nel fatto che la nostra felicità funziona se serve anche a concorrere al benessere di una comunità e questo cementa il senso di appartenenza, senza la quale rischiamo di essere sperduti nel nostro individualismo.

Ma capisco che sto…filosofeggiando.