Ho la posizione privilegiata di aver visto nascere e mutare in profondità formazioni politiche e quell’insieme chiamato in Italia “partitocrazia”.
Il ”caso Lega” è eclatante. Nel 1979 spuntò, alle prime elezioni europee a suffragio universale, Umberto Bossi. Fu candidato nella lista organizzata dall’Union Valdôtaine in tutta Italia e il deus ex machina dell’iniziativa, che mirava ad avere un parlamentare europeo valdostano, fu Bruno Salvadori, esponente del Mouvement prematuramente scomparso.
La scoperta del federalismo valdostano e del modello di Autonomia speciale fu il cavallo di battaglia della Lega Lombarda e io stesso, deputato nel 1987 quando al Senato venne eletto lo stesso Bossi (da allora detto Senatùr), partecipai a gigantesche assemblee dei leghisti, che percorrevano una logica separatista per il Nord e violentemente antiromana.
La Lega (che fu poi, anni dopo, antagonista alle elezioni valdostane dell’UV) è oggi diventato un partito nazionalista e sovranista, sradicando anno dopo anno quelle radici iniziali. Il partito ha avuto risultati elettorali altalenanti e al momento viaggia con percentuali basse.
Matteo Salvini scoprì, con fiuto politico, alla vigilia delle ultime europee, lo sconosciuto Generale Vannacci, apparso sulla scena per un libro destrorso che suscitò polemiche.
Nelle sue prime sortite questo Vannacci pareva - per quelli della mia generazione - uno dei personaggi iconici della storica trasmissione radiofonica “Alto gradimento”, ideata da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni (insieme a Giorgio Bracardi e Mario Marenco) e andata in onda sul Secondo Programma Radio RAI a partire dal 7 luglio 1970. Il programma, un cult dell'umorismo italiano degli anni '70, era un mix di satira, sketch comici, parodie e musica, trasmesso dal lunedì al venerdì dalle 12:30 alle 13:30, e riscosse un enorme successo per il suo stile innovativo e irriverente, che "salvò la radio dalla televisione" come disse lo stesso Arbore.
Il "generale" in questione era il Generale Damiani” (o in alcune varianti "Generale Buttiglione"), interpretato da Mario Marenco. Si trattava di un colonnello/generale pensionato, un archetipo del militare pomposo, reazionario e pieno di retorica bellicosa, che impersonava la satira sulle gerarchie militari e sul machismo italiano dell'epoca. Con il suo tono autoritario, aneddoti esagerati sulle campagne belliche e battute surreali (come "Amico caro, amico bello!"), Damiani divenne uno dei volti (o meglio, voci) più amati e memorabili del programma. Marenco lo descriveva come una maschera eterna della commedia italiana, capace di prendere in giro vizi nazionali come l'ipocrisia e l'autoritarismo.
Insomma, Vannacci, che purtroppo di comico ha poco e con il successo personale alle Europee ha salvato la leadership di Salvini e ha da allora un ampio palcoscenico, oscilla fra la voglia di un partito suo e affermazioni assai dubbie di lealtà verso la Lega.
Scalpitano i Presidenti di Regioni leghiste del Nord e il più autorevole fra loro, il veneto Luca Zaia, che corre alle prossime regionali come consigliere semplice per il limite dei mandati da Presidente, ora parla di un possibile, nuovo partito del Nord che abbia con la Lega un rapporto tipo quello fra la CSU bavarese e la CDU presente nel resto della Germania. In realtà la scelta sarebbe una rottura bella e buona!
Antonio Polito sul Corriere di ieri racconta la deriva del Generale leghista, che - lo ricordo incidentalmente - non ha portato bene ai leghisti valdostani con la sua presenza nella recente campagna elettorale, visto che sono passati da 11 a 3 consiglieri regionali.
“Vannacci - scrive Polito - è ormai passato a una vera e propria apologetica del regime che merita per questo di essere combattuta, in primo luogo dalla coalizione di centrodestra che governa oggi l’Italia.
Il metodo è quello solito, più adatto a un «paglietta» che a un militare: dire una mezza verità e non dire tutta la verità, provocare e subito dopo edulcorare, inneggiare alla X (Mas) e poi sostenere che era solo una «ics».
Per esempio: in quella che ha pomposamente autodefinito una «ripetizione di storia», il generale sostiene che la Marcia su Roma «non fu un colpo di Stato, ma poco più di una manifestazione di piazza», appoggiandosi anche all’autorità di un incolpevole storico. Tace però che quei «manifestanti» erano uomini in armi, che nei due anni precedenti avevano dato vita a un’ondata di violenze senza precedenti, saccheggi e incendi, pestaggi e omicidi, e che proseguirono, una volta preso il potere, con il culmine dell’assassinio di Giacomo Matteotti”.
Prosegue Polito con la solita efficacia dei suoi scritti: “Un altro esempio: Vannacci dice che «tutte le principali leggi, dalla riforma elettorale del 1923 alle norme sul partito unico, fino alle stesse leggi del 1938, furono promulgate dal Re secondo le procedure».
Notate l’autocensura: che cosa sarebbero queste «stesse leggi del 1938»? Vannacci si riferisce forse alle leggi per la difesa della razza, alla persecuzione degli ebrei italiani, a partire dai bambini cacciati dalle scuole? Perché non le chiama con il loro nome? Non è già questo uno sconto fatto a un regime la cui legislazione antisemita è stata definita da Giorgia Meloni «il punto più basso della storia italiana»? E poi: che vuol dire che furono promulgate dal Re? È un’attenuante? Tutt’altro. Alla fine della guerra gli italiani scelsero la Repubblica e mandarono in esilio il Re esattamente perché la monarchia aveva assecondato il fascismo. Non a caso l’ultimo articolo della Costituzione, il 139, dice che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». E la XII disposizione transitoria dice che «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista».
Dunque il fascismo, così come la monarchia, non potrà mai più tornare. E perciò il tentativo di renderlo accettabile, di rivalutarlo agli occhi non solo dei nostalgici ma, quel che è peggio, dei giovani di oggi, è una colpa grave che il governo della Repubblica italiana non può consentire, soprattutto quando è nelle mani di una destra che dichiara di aver chiuso definitivamente i conti con quel passato e ha giurato fedeltà alla Costituzione. Naturalmente Vannacci può dire quel che vuole (ovviamente entro i limiti di legge). Ma la destra di cui fa parte non può tacere, facendo finta di niente”.
Infine: “Vannacci è il numero due di un partito di governo. Qualcuno parli, dunque, e non solo il povero ministro Crosetto. Fratelli d’Italia ha altri due autorevolissimi fondatori, la Lega ha un passato impeccabilmente antifascista. Il loro silenzio è perciò tanto più assordante. Una netta condanna sarebbe un servizio reso alla Repubblica, per proteggerne le radici antifasciste. Ce n’è sempre bisogno. Ce n’è di nuovo bisogno”.
Aggiungerei: basta con tutte queste ambiguità, perché anche il trasformismo - vecchio vizio della politica italiana - ha un limite.
E parlarne è cosa più seria del Ponte di Messina, che sarà una voragine per la spesa pubblica e, intanto, svuota i finanziamenti ordinari per la viabilità. Una coltellata al Nord, stella polare del passato.