Nel gergo politologico esiste un termine oicofobia (dal greco oikos, “casa”, e phobos, “paura”), che ha avuto nel tempo diversi significati, mentre oggi viene soprattutto usato in un senso culturale e naturalmente politico.
Il contenuto della parola, come sviluppato dal filosofo britannico Roger Scruton (1944-2020), si riferisce a un fenomeno sociale e intellettuale in cui individui o gruppi, spesso appartenenti alle élite culturali o accademiche, manifestano un'avversione o un rifiuto verso la propria cultura, tradizioni, valori o identità nazionale, privilegiando invece ciò che è percepito come estraneo, diverso o "esotico".
Scruton ha introdotto questo concetto per criticare quella che vedeva come una tendenza autodistruttiva nelle società occidentali, in particolare tra intellettuali e progressisti, a denigrare la propria eredità culturale in favore di un cosmopolitismo acritico o di un'idealizzazione di culture straniere.
Gli oicofobi tendono a vedere la propria tradizione come intrinsecamente oppressiva, retrograda o moralmente inferiore rispetto ad altre culture. Questo atteggiamento può portare a un rifiuto delle istituzioni, della storia o dei valori dell’identità collettiva che hanno plasmato la comunità in cui vivono.
Penso che se ne debba discutere, anche al di là dell’uso che su questa riflessione possono fare visioni conservatrici e persino potenzialmente retrive.
Ecco perché credo che si debba ben distinguere tra critica della storia, riconoscendo errori del passato e l’attitudine di rinnegamento dell’identità. Così come il riconoscimento del patrimonio identitario non significa affatto guardare solo al passato, essendo l’identità un elemento necessariamente in continua evoluzione, che è ben diverso dal rinnegare elementi fondativi.
La Valle d’Aosta - terra di montagna per eccellenza - può essere un modello contro l’oicofobia: una comunità che non ha paura delle proprie radici, ma le valorizza come fondamento di libertà, autonomia e dialogo con il mondo. Difendere la nostra identità non significa chiudersi, ma riconoscere il valore di ciò che siamo: una comunità autonoma, plurilingue e solidale, capace di guardare al mondo senza smarrire le proprie radici.
Oggi assistiamo, anche nelle altre regioni alpine con cui è bene confrontarsi per le evidenti affinità , a una forma di oicofobia culturale: la tendenza di alcuni a considerare le lingue, la memoria e le tradizioni locali come elementi superati o d’intralcio alla modernità.
Invece, in barba a certi negazionisti, la nostra identità valdostana — francofona, italofona, patoisante e profondamente europea — serve ad affrontare, con una consapevolezza di sé, le sfide del presente: la transizione ecologica, la coesione sociale, l’innovazione.
So quanto sia difficile ed esercizio che ognuno di noi è chiamato a fare, quel conciliare la memoria con il futuro, valorizzare le nostre specificità e trasmetterle alle nuove generazioni come patrimonio di libertà e dignità.
Bisogna saper riconoscere il valore di una “maison commune”: una comunità aperta, autonoma e accogliente, dove la diversità è radice di unione, non di divisione.
Una visione cosmopolita, intesa come apertura verso il mondo e altre culture, possa funzionare solo se radicata in una forte identità comunitaria. Senza questa sicurezza, l'apertura rischia di dissolvere i legami sociali e culturali che danno senso allo stare insieme.
Una comunità insicura o frammentata rischia di soccombere ad un'omogeneizzazione culturale che erode le specificità nel nome di un globalismo astratto.