La grande incognita che aleggia sulle elezioni valdostane di fine Settembre è l’astensionismo e vale la pena di parlarne. Ne scriveva in questi giorni su HuffPost il direttore, Mattia Feltri: “Secondo i sondaggi, alle prossime elezioni regionali, che in autunno riguarderanno Marche, Calabria, Campania, Puglia, Toscana, Veneto e Valle d’Aosta, andrà a votare un elettore su due, e dunque l’astensionismo sarà attorno al cinquanta per cento. Sono pronto a scommettere anche qualche punto in più, poiché la tendenza alla noia e alla frustrazione è costante e, pare, irrefrenabile.
Ogni volta si indagano, ultimamente con qualche pigrizia in più, i motivi da cui gli elettori sono indotti a restare a casa: la sfiducia nella politica, i candidati di basso profilo, un dibattito pubblico deprimente, la consapevolezza dell’ininfluenza del voto, tanto poi nulla cambia. Diagnosi interessanti, probabilmente corrette, ma secondo me andrebbero approfondite partendo dall’idea che la democrazia non è una taverna e, a differenza del cliente, il cittadino non ha sempre ragione (come invece ultimamente, al mercato del consenso, si tende a sostenere)”.
Una digressione è necessaria ed è nelle parole di qualche tempo fa del costituzionalista Michele Ainis: “La Carta del 1947 disegna il voto come un diritto, ma altresì come un "dovere civico" (articolo 48). In altri tempi non era solo, come oggi, una sorta di dovere morale (e dunque soggettivo e discrezionale), perché i cittadini non votanti per le elezioni delle Camere, venivano sanzionati (dpr n. 361 del 30 marzo 1957). Diceva l'articolo 4: "L'esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese". Ma c'era ben di più all'articolo 115: "L'elettore che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco. L'elenco di coloro che si astengono dal voto senza giustificato motivo è esposto per la durata di un mese nell'albo comunale. Per il periodo di cinque anni la menzione "non ha votato" è iscritta nei certificati di buona condotta"». Naturalmente sappiamo tutti benissimo che la sanzione per coloro che non vanno a votare non è più in vigore. La norma è stata abrogata nel 1993.
Giusto che così fosse, ma oggi - potenza delle norme in parte grottesche della privacy - chi non partecipa al voto non è identificabile e mi spiace che ciò sia possibile, perché sarebbe interessante per chi fa politica poter interloquire con chi sceglie di disertare le urne, per capirne le motivazioni e comprendere quale sia la forza di questo partito crescente dei "non votanti".
A questo proposito scriveva, anni fa, sul "Corriere della Sera" il giornalista Marco Cianca: «Il distacco è in realtà senza confini politici, invade tutte le aree sociali. Apatici, rancorosi, indifferenti, indignati, disgustati, delusi, cinici, nichilisti, nostalgici, paurosi, apocalittici, idealisti, disperati, attendisti, insofferenti. L'astensione ha mille volti, è un moto dell'animo. Non esiste, non può esistere, un partito dell'astensione. Troppo diverse le motivazioni, le idee, le culture, gli obiettivi. Ma il filo comune del rifiuto dell'attuale politica rischia di trasformarsi in un cappio che strangola le libere elezioni». Io mi rifaccio ad Adriano Olivetti, imprenditore illuminato ed utopista, già nel 1949, teorizzando le Comunità, metteva in guardia dalla crisi del parlamentarismo: «Il mandato politico, nella sua vera essenza, è soltanto un atto di fiducia degli uomini in un altro uomo. Quando la fiducia non c'è, la democrazia muore».
Ancora Feltri con grande acume: “Alla fine, il diritto di voto è più un simbolo: ogni voto vale uno, perché siamo nati tutti liberi, tutti uguali, tutti con gli stessi diritti. Può sembrare una banalità soltanto a chi trascuri che è una conquista con meno di tre secoli di vita, e garantita oggi soltanto all’8 per cento della popolazione mondiale (stime dell’Economist) che vive in regime di democrazia compiuta. Se uno pensa di cambiare il mondo col suo voto, sbaglia. Se uno sa di poter votare perché il mondo è già cambiato, ha fatto un passo avanti. Votare significa cercare di dare una direzione alla democrazia, di darle un’impronta con la propria idea, sapendo che ci sono anche tutte le altre ma, soprattutto, votare significa manifestare la libertà di scegliere invece negata dalle dittature. Libertà di scegliere quale partito votare e, di conseguenza, libertà di esprimere il proprio pensiero, scrivendo e parlando, libertà di riunirsi, di manifestare, di fondare movimenti, libertà di spostarsi senza chiedere il permesso, di vestirsi come si preferisce, di leggere i libri che si vuole, di ascoltare la musica che si ama, di tenersi per mano e baciarsi per strada, e tutto questo a noi sembra normale, ovvio, scontato, ma appena al di là di un labile confine è vietato. Non andare a votare perché la democrazia ci ha delusi significa non aver capito nulla e buttare una fortuna che ci è toccata in sorte perché qualcuno è morto per lasciarcela in eredità. Non andare a votare perché in fondo sono tutti uguali e nulla mai cambia è il primo gradino di una scala in cui al penultimo gradino c’è qualcuno che spara a qualcun altro per le sue idee, e in cima c’è il tiranno”.
Condivido in pieno.