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22 feb 2025

22 febbraio 1980

di Luciano Caveri

È un peccato non poter incontrare sé stessi tornando nel passato, come capita in qualche film di fantascienza. Mi piacerebbe chiacchierare con me nella giornata di oggi, ma 45 anni fa.

Il 22 febbraio del 1980 era un venerdì e fu il mio primo giorno alla RAI, assunto come praticante giornalista professionista. Per farlo dovetti firmare una novazione di contratto, visto che ero stato da poco regolarizzato come collaboratore esterno. A giochicchiare con il giornalismo avevo cominciato da qualche anno e mi avevano già fatto dei contratti qualche tempo prima, che poi mi sono valsi, attraverso un ricongiungimento, per i calcoli per la pensione.

Era per me - poco più che un ragazzetto pieno di buoni propositi - una tappa sperata a conclusione di settimane di passione. Fu il Caporedattore, Mario Pogliotti, a spingere la mia candidatura e ci mise il cuore contro logiche di spartizione che avevano rischiato di lasciarmi al palo. Una serie di casualità e di fortune mi fecero invece approdare a quel lavoro che speravo di raggiungere, quando pochi anni prima - nella confusa età adolescenziale - mi ero prefissato come un obiettivo.

Questo avveniva in una RAI che era una potenza e i colleghi più anziani, che fossero giornalisti o tecnici, guardavano ancora con scetticismo, misto persino a presunzione, sul fatto che il Servizio pubblico mai sarebbe stato sfiorato nella sua logica monolitica e granitica da una reale concorrenza dei privati. Pia illusione, cui mai aderii, conscio dell’esatto contrario.

Con la sfrontatezza dei vent’anni, entrai pieno di certezze e sicurezze. Anche perché avevo più esperienza televisiva della gran parte dei colleghi, nati e cresciuti chi con la carta stampata e chi con la radio.

Se potessi parlare con il me di allora, direi che quella joie de vivre e certa sicumera (qualche difetto l’’avrò mantenuto…) non erano poi così male e mi sono servite molto. L’accompagnavo con un’etica del lavoro ereditata da papà, che mi obbligava a fare e a esserci ed era il suo un esempio vivente.

Per cui ero sempre sul campo con grande entusiasmo con reportage di tutti i generi e come lettore della Voix de la Vallée e del Telegiornale regionale. Ero riuscito anche ad emergere con servizi sulle testate nazionali. Ex post ne sono fiero. Consideravo - se chiedessi al me stesso di allora - che questo sarebbe stato il mio lavoro per sempre e, invece, arrivò inaspettata la politica.

Non che non abbia tenuto un piede nell’informazione con rubriche varie con diversi media, ma è stata roba ben differente da una vita di Redazione.

Parlando con il alias del tempo che fu, potrei chiedermi che cosa sarebbe stato senza l’elezione a deputato nel 1987 e dove sarei arrivato con il giornalismo radiotelevisivo. Si tratterebbe di null’altro che un esercizio inutile. Conta che si è fatto e quel che è avvenuto e non ho nessun rimpianto o forse qualche curiosità su di come mi sarei occupato se…

Ma la politica (pur con una parentesi di ritorno alla Rai di non pochi anni) mi ha assorbito e considero - pur nell’incertezza che deriva dalle elezioni vissute e dall’alea di interrogativi conseguente - il ruolo di eletto un lavoro (pur a tempo…determinato) che va fatto studiando, applicandosi e guardando a chi è più bravo, perché non si finisce mai di imparare.

Ha ragione Zygmunt Bauman. sociologo e accademico polacco, che così ha scritto ne L’arte della vita: “La nostra vita è un’opera d’arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile”.

Certo una dichiarazione che vola alto ed è in alto che bisogna sempre guardare: lo direi anche a quel me stesso del 1980.