Parto per qualche giorno e mi trovo ormai di fronte alla realtà che ad un certo punto - non riesco neppure a situarla con esattezza nel tempo - ha fatto irruzione nelle nostre vite. Essere sempre connessi è stata una situazione nuova in progress: si è partiti con la telefonia mobile, che si è espansa piano piano e poi attraverso Internet il nostro rapporto con il mondo è cambiato.
Verrebbe da dire che la Rete ci ha preso in una…rete, di cui siamo diventati sempre più prigionieri. Gli spazi di solitudine, di svago e - lo diremo - di ozio sono diventati rari, se non inesistenti.
Lasciando in queste ore il mio lavoro politico per una vacanza, ne ho avuto l’ennesima e piena consapevolezza. Le mail, i Whatsapp, le telefonate (“posso disturbarti?”: è questo ormai un classico) continueranno a trillare e io, fesso che sono, non riuscirò a staccare per una sorta di stupido senso del dovere o forse, peggio ancora, di dipendenza dal digitale e i suoi fratelli e sorelle.
Sembra finito il tempo in cui, sin dalle prime uscite da adolescente on the road, sparivi dalla scena per qualche giorno e alla vacanza applicavi con i genitori non sempre d’accordo la filosofia “nessuna notizia, buone notizie”. Così nel lavoro successivo, quando per alcuni anni la tua assenza era totale e non capitava nulla di terribile: si poteva tranquillamente fare a meno di te, specie se sceglievi luoghi remoti, dove potevi al massimo telefonare per confermare in un istante che stavi bene e, incrociando le dita, chiedevi come andassero le cose a casa.
Tutto questo è finito e puoi scegliere il posto più distante, che non ti allontana da te stesso e dalle tue responsabilità, qualunque esse siano.
In sostanza: non stacchi mai. Te ne lamenti, ma non ne puoi fare a meno, perché siamo diventati tossici. Per questo mi ha fatto sorridere su Vanity Fair un articolo che riflette uno stato d’animo e una necessità, che andrebbe applicata prima di essere finalmente libero, persin troppo…, perché irrimediabilmente rincitrullito, spero in età molto avanzata.
Scrivono Andrea Colamedici e Maura Cangitano:”Qualche giorno fa una persona ci ha scritto: «I miei capi hanno mandato una mail in cui mi auguravano buone vacanze. Il problema è il modo in cui si chiudeva il loro messaggio: “Con la cortesia di continuare a controllare la posta lavorativa in caso di emergenze”». Ma controllare la posta significa esattamente lavorare. L’estate è, oramai, quel periodo magico dell’anno in cui ci sentiamo in colpa per non fare nulla, e in cui comunque trascorriamo buona parte del tempo a lavoricchiare. In un’era dove essere occupati è diventato uno status symbol, l’estate si presenta come un’opportunità preziosa per riscoprire e coltivare l’arte dell’ozio. Ma cosa significa veramente oziare, e perché dovremmo reimparare a farlo?”.
Prima di proseguire nel giusto ragionamento, segnalo come sta giustamente irrompendo nel diritto del lavoro il diretto alla disconnessione e cioè i datori di lavoro, ma questo vale certo solo per chi è dipendente, potranno sempre meno obbligarti a restare in qualche modo a disposizione on line quando non si è al lavoro. Il che naturalmente dovrà diventare un patrimonio comune non solo in questo campo, ma poter respirare significherebbe non essere invasi da altre fonti di “rotture”, quanto - se non stacchi tutto tu con ribellismo libertario - immagino sia davvero difficile.
Continuano gli autori dell’articolo con quelle che considero ottime e condivisibili intenzioni: “L’ozio non è sinonimo di pigrizia o di spreco di tempo: è un’arte raffinata e una disciplina che richiede molta pratica. L’ozio autentico è uno stato di contemplazione, di presenza mentale e di apertura verso il mondo circostante, che porta con sé una serie di benefici che spesso sottovalutiamo perché siamo troppo occupati a postare sui social quanto siamo occupati. Innanzitutto, offre una rigenerazione mentale fondamentale: permette alla mente di riposare e ricaricarsi, offrendo effetto diretto sul nostro benessere fisico e riducendo significativamente i livelli di stress. Il cortisolo, l’ormone associato allo stress, diminuisce quando ci concediamo momenti di vera tranquillità. Ma i benefici dell’ozio non si fermano qui. Prendersi del tempo per non fare nulla può migliorare anche le nostre relazioni”..
E più avanti: “L’estate, con i suoi ritmi più lenti e le giornate più lunghe, offre il contesto ideale per educarci all’ozio. Il primo passo è imparare a disconnettersi: spegnere i dispositivi elettronici e immergersi nel silenzio. Una volta liberi dalle distrazioni digitali, ci si può dedicare a sentirsi stupidi e incapaci osservando la natura. Guardare il cielo, ascoltare il mare o semplicemente osservare un fiore sono attività profondamente rilassanti, ma all’inizio sono potenzialmente devastanti, perché ci mettono di fronte alla nostra incapacità di indugiare sulle cose. L’estate è anche il momento ideale per riscoprire attività lente che spesso trascuriamo nella frenesia quotidiana. Leggere un libro senza fretta, fare una passeggiata senza meta o semplicemente sedersi in un parco diventano atti di ribellione gentile contro la cultura della velocità.
Infine, uno degli aspetti più impegnativi ma potenzialmente più gratificanti dell’educazione all’ozio è imparare ad abbracciare la noia. Resistere all’impulso di riempire ogni momento con attività può essere una sfida. In un mondo che ci spinge costantemente all’azione e alla produttività, infatti, imparare l’arte dell’ozio è un atto rivoluzionario”.
Già, mi sento totalmente un combattente della causa, ma temo che - senza una collettiva presa di coscienza e norme chiare sul diritto a alla disconnessione almeno in vacanza - il plaidoyer sia destinata a finire nel cassetto, che è già pieno di buoni propositi.