Passeggiavo ieri nel tardo pomeriggio lungo la Dora Baltea, il “nostro fiume” domestico, frutto della raccolta delle acque dal Monte Bianco sino alla frontiera con il Piemonte, quando poi si distende verso il Canavese. La Dora, infatti, attraversa l’anfiteatro morenico d’Ivrea e affluisce nel Po, da sinistra, a valle di Chivasso.
In questi giorni il fiume, così come molti torrenti affluenti, è gonfio di acqua sia per lo scioglimento delle nevi tardive che per le piogge battenti delle scorse ore che hanno raggiunto quote ancora innevate e hanno martoriato larghe zone della Valle con mm di pioggia eccezionali, il cui unico aspetto positivo - ma lo dico en passant - sono la riserva idrica per le popolazione e l’agricoltura e la produzione idroelettrica.
La Dora in queste ore è ancora impetuosa e non sempre lo è stato in questi anni in cui spesso è apparsa la siccità. Questi fenomeni estremi sono sempre più elemento di preoccupazione per la ripetitività e la quantità degli eventi. Si è temuto in queste ore il peggio e va detto, visto che in genere si parla male delle situazioni alpine come se la presenza umana fosse una sciagura, che il sistema di regimazione delle acque, dighe e bacini compresi, ha reagito bene e lo stesso vale per i sistemi di allerta. Molti lavori compiuti a causa di alluvioni precedenti si sono rivelati utili e i sistemi per contrastare i rischi di versanti franosi e i movimenti dei seracchi di alcuni ghiacciai sono all’avanguardia.
Il che, naturalmente, non basta mai per azzerare i pericoli, che sono insiti in territori di montagna com’è la Valle d’Aosta. Chi sogna il rischio zero deve sempre fare i conti con la realtà. Quando si parla di riscaldamento globale e del susseguente cambiamento climatico, ci si scontra con fenomeni accelerati e non sempre del tutto prevedibili. Ma questo non significa affatto rassegnazione, anzi il famoso adattamento vuol dire proprio saper convivere con fenomeni potenzialmente calamitosi e essere pronti alle emergenze con prevenzione e capacità di reazione.
Tutto in montagna è estremo e per questo diventa ogni occasione utile per migliorare i propri sistemi, sia per una difesa delle popolazioni locali, ma anche perché una montagna non controllata e soprattutto non sufficientemente manutenuta è un rischio per le zone subalpine sottostanti. Se si prende una scheda generica sul rapporto della Valle d’Aosta con l’acqua, si può leggere qualcosa del genere: ”Le piogge sulla Valle d'Aosta risultano scarse, soprattutto se confrontate con le altre regioni del settore alpino; questo perché i venti che soffiano più frequentemente sono di provenienza occidentale e scaricano sui versanti ovest delle Alpi il loro contenuto di umidità. Le vallate più interne incassate tra imponenti rilievi risultano essere molto secche (ombre pluviometriche). Per ovviare alla scarsità di precipitazioni sono state costruite, fin dall'alto Medioevo, grandi opere di canalizzazione irrigua denominate Rûs, ancora oggi utilizzate”.
Queste canalizzazioni, opere ciclopiche, prendono le acque dai ghiacciai delle grandi montagne e oggi la prospettiva di un ritiro dei ghiacciai, sino al loro vero e proprio esaurimento, sono una spada di Damocle che fa impressione. E chi dice che questo andirivieni dei ghiacciai segue un ritmo naturale tende a disconoscere la clamorosa velocità del fenomeno del tutto inusuale nel tempo e frutto di quei fenomeni umani che sono ormai preponderanti rispetto al passato.
Certo la Valle d’Aosta può pianificare ragionevolmente le misure per reagire e in parte attenuare le conseguenze di quanto una volta aveva logiche secolari se non millenarie. Ma sulle Alpi agiscono le grandi città sottostanti, le azioni compiute nelle grandi industrie, i sistemi di mobilità e di riscaldamento e molti altri fattori. I montanari, valdostani compresi, sono come l’equipaggio di una nave in balia di un mare in tempesta e chi è a bordo può fare del suo meglio, ma non fermare un insieme di concause di cui hanno solo una piccola parte di responsabilità.