Era il 18 maggio del 1944, come se fosse oggi, quando Émile Chanoux morì in prigione, diventando il martire della causa valdostana durante la Resistenza.
Mio papà mi raccontava di essere andato, qualche ora dopo la sua morte, a cercar di vedere il suo corpo al cimitero di Aosta. Fu il vecchio Camandona delle pompe funebri a dirgli di andarsene, perché rischiava la vita a stare lì. Amico della mia famiglia, Chanoux mi è stato descritto nell’intimo dei rapporti di stretta confidenza come un uomo semplice, intelligente e razionale, che aborriva da buon montanaro e da homme cultivé la retorica fascista e la ferocia del Regime e del disegno preciso di strangolare le libertà e l'identità del popolo valdostano.
Come ho avuto modo dire più volte in occasioni pubbliche, è certo un bene in certe ricorrenze coltivare il lutto postumo, il ricordo commosso, la valorizzazione del pensiero, ma bisogna evitare di disperdere certi insegnamenti fondanti attraverso l’uso della retorica vuota e ripetitiva.
Chanoux è stato ucciso brutalmente senza rivelare nulla del movimento partigiano neppure sotto tortura, diventando un simbolo fatto di idee e di speranze. Sarebbe terribile e ingiusto trasformarlo in una specie di santino senz'anima. Invece, Émile Chanoux in carne ed ossa faceva paura ai fascisti, ai nazisti e anche ai nemici che aveva all'interno della Resistenza per le sue idee federaliste e per le varie opzioni su cui ragionava con i giovani della Jeune Vallée d’Aoste per un futuro migliore possibile per la Patria valdostana, dopo quella Liberazione che lui non vide realizzarsi.
Il tempo non lo ha consumato ed è entrato nel mito come una personalità che ha dato un avvio decisivo a quel futuro in cui aveva sperato e che aveva tracciato con grande preveggenza. Leggo spesso cosa scriveva e diceva di lui nelle occasioni pubbliche un suo amico e collaboratore qual era stato mio zio Severino Caveri, accolto prima della maggiore età nella "Jeune Vallée d'Aoste", dopo che lo stesso notaio ne aveva chiesto il permesso a mio nonno Prefetto.
Il ricordo di Chanoux ha un prima e un dopo. Nel secondo dopoguerra la sua memoria, ancora fresca, è stata coltivata quasi esclusivamente dall'Union Valdôtaine. Altri lo evocavano con cautela o non lo invocavano affatto. Poi Chanoux ed il suo pensiero, anche grazie al lavoro di scavo nella sua opera di Paolo Momigliano Levi con il materiale fornito dalla famiglia, ottiene il dovuto e generale riconoscimento, con la sola eccezione dei neofascisti.
Ripeto, però, che Chanoux è stato molto di più di certi discorsi di maniera e gli si rende giustizia capendone il suo ruolo di allora e la sua capacità di analisi. Siamo di fronte ad un gigante del pensiero politico, che è morto anzitempo nel 1944 a soli 38 anni, lasciando la sua famiglia senza un padre. Per rendergli onore bisogna tornare spesso e ripetutamente alle sorgenti del pensiero autonomista. Non per proporlo come un rosario recitato a memoria, ma perché da lì derivano spunti da applicare qui ed oggi, compresa la capacità di rinnovare pensieri e progetti per essere connessi alla contemporaneità.
Il suo senso del riscatto nel momento di difficoltà è davvero un insegnamento capitale. Chanoux in una lettera del 1930 - citata in un libro di mio zio Severino - annotava di fronte alla difficoltà di far politica a favore degli ideali valdostani nell'ambito del cattolicesimo ufficiale: «Pendant que je faisais cette constatation, mon cœur qui souffrait depuis longtemps de l'agonie de mon peuple, a cru trouver d'autres coeurs qui avaient sa souffrance et ses espoirs. Nous nous sommes par conséquent réunis et, à notre étonnement même, nous avons vu qu'autour de nous bon nombre de jeunes pensaient ce que nous pensions et se sentaient attirés par notre flamme».
Ora come allora, per fortuna, ci sono persone che credono a questo messaggio, a questa fiamma che arde e spetta proprio a chi ci crede coltivare Chanoux e i suoi messaggi in bottiglia che arrivano dal passato, come un lievito madre senza tempo.