Mi pare che ci sia una crescente tendenza a chiedersi se e come si possa cambiare se stessi, migliorando il proprio modo di essere.
Molti lo fanno con diversi aiuti: chi con le scienze conosciute e chi rivolgendosi a figure meno professionali e il distinguo non è per nulla banale in un mondo nel quale si insinuano troppi ciarlatani.
Resta il fatto che l’ambizione di stare meglio, di correggere i propri difetti,di vivere in modo più equilibrato con il proprio carattere, anche nel rapporto con gli altri, sia giusta e legittima.
Spesso ci si rifugia dietro le paure del cambiamento, quando invece è la caratteristica che ci accompagna nella vita e nella Natura attorno a noi.
Ha scritto Henri Bergson: “Esistere è cambiare, cambiare è maturare, maturare è continuare a creare se stessi senza fine”.
Ci pensavo leggendo su Internazionale un tema che penso accomuni tutti e penso nel mio caso a certe ansie che dobbiamo affrontare quotidianamente e altre che appaiarono nel nostro orizzonte per gli ostacoli che spesso si frappongono rispetto alla quiete del nostro tran tran. Scrive Christina Caron sul New York Times, inquadrando un tema molto comune con le sfide di noi esseri umani: “Molti dei pazienti di Yuxin Sun, psicologa di Seattle, ci tengono a ribadire di non essere perfezionisti. “Non sono perfetto, tutt’altro”, le dicono tutti. Ma essere perfezionisti non significa essere i migliori in ogni ambito, spiega Sun. “È la sensazione di non poter mai arrivare alla perfezione, di non essere mai abbastanza bravi, di non sentirsi mai adeguati”. E questo può scatenare una dura voce interiore che ci sminuisce e ci punisce. Il perfezionismo è così diffuso che esiste un test per misurarne l’intensità attraverso la Multidimensional perfectionism scale (Mps). Analizzando per anni le risposte degli studenti a un questionario basato su questa scala, i ricercatori hanno registrato un’impennata nel tasso di perfezionismo tra il 2006 e il 2022.Thomas Curran, professore di psicologia della London school of economics and political science che ha condotto l’analisi, sottolinea che il tipo di perfezionismo con l’incremento maggiore è quello socialmente prescritto, cioè radicato nella convinzione che gli altri pretendano da noi la perfezione”.
Questo non credo stupisca nessuno: viviamo in un mondo sempre più competitivo e siamo giudicati per quello che facciamo. Questo non vale solo nel lavoro ma anche, da sempre, nei rapporti familiari e affettivi.
Prosegue l’articolo: ”La sensazione di non essere abbastanza bravi o che la nostra condizione attuale sia “inadeguata o insufficiente ha creato un circolo vizioso inarrestabile”, spiega Curran, in cui “non esiste gioia nel successo e dilaga l’autocritica”. A prescindere da quanto e se ci consideriamo perfezionisti, secondo gli esperti esiste una serie di misure da poter adottare per tenere sotto controllo il nostro critico interiore”.
Questa che segue è la parte pratica più interessante e, almeno nel mio caso, risponde a quel che mi capita, per fortuna non troppo spesso, in certi risvegli notturni in cui determinati problemi, come fantasmi, si ingigantiscono. Così continua la Caron: ”Ethan Kross, professore di psicologia dell’università del Michigan e autore di “Quella voce nella tua testa“. Perché è importante capirla e come fartela amica (2021), racconta che un processo chiamato “distanziamento” è la sua “prima linea di difesa” contro i pensieri negativi. È un modo per osservare da lontano il nostro brusio interiore e affrontarlo in maniera diversa. Se nel bel mezzo della notte ci ritroviamo angosciati da un pensiero negativo, per esempio, faremmo bene a “entrare in una macchina del tempo mentale”. Dovremmo porci la domanda: “Come mi sentirò quando ci ripenserò domani mattina?”. L’ansia ci apparirà probabilmente meno forte alla luce del giorno. La proiezione verso il futuro potrebbe aiutarci anche di più: davvero fra tre mesi avrà importanza se oggi ho esitato durante una presentazione?Un altro modo per prendere le distanze dalle preoccupazioni è quello di evitare di pensare in prima persona. Invece di dire: “Non posso credere di aver fatto quell’errore, sono una stupida”, si potrebbe acquisire una prospettiva nuova dicendosi: “Christina, hai fatto un errore. Ora questo ti fa sentire in colpa, ma non sarà così per sempre. Quello che è successo a te è successo a molte altre persone”. Nei suoi studi, Kross ha scoperto che quando le persone usano il pronome “tu” o il loro nome anziché il pronome “io” ed esaminano le proprie sensazioni da una prospettiva esterna, è come se “scattasse un interruttore”. Il risultato è un dialogo interiore più costruttivo e positivo rispetto a quello di chi si rivolge a se stesso in prima persona. Diverse ricerche hanno riscontrato benefici simili per chi adotta un punto di vista più distaccato”.
Mi ha molto colpito, giorni fa, durante un incontro sull’Europa con giovani studenti in cui il gioco era usare espressioni sui temi europei per loro maggiormente importanti, che sia uscito fuori l’espressione “problemi mentali”. Nella breve discussioni sono emersi i disagi, le preoccupazioni, le paure che legittimamente di questi tempi interessano i giovani e di sicuro il periodo della pandemia ha colpito duro sulle generazioni degli studenti d’improvviso trovatisi isolati rispetto alla consueta e necessaria socialità.
Dimostrazione che porsi certi problemi per ciascuno di noi e per la comunità cui apparteniamo non è per nulla banale. E questo non vale solo per i giovani, come ammonisce un verso di una canzone di Jacques Brel: “Je connais des bateaux qui oubliant de partir… ils ont peur de la mer à force de vieillir”.