Ho più volte raccontato di come da bambino provassi disagio per le festività di inizio Novembre dedicate ai morti. Questa idea della morte con la quale è già difficile fare i conti a tutte le età, era nell’infanzia una specie di fantasma che mi turbava, applicandolo al pericolo che i miei genitori morissero d’improvviso. Con il tempo impari che nella morte delle persone non esiste una regola e non c’è una giustizia che colpisca con chissà quale lucida razionalità. Le religioni offrono spiegazioni varie, ma preferiscono spostare la dimensione al dopo di noi e alla speranza ancorata alla fede che ci sarà un domani. Viene in mente la famosa scommessa del filosofo Blaise Pascal. Secondo il suo ragionamento non si può giungere alla conoscenza dell'esistenza di Dio usando solo la ragione, dunque la cosa saggia da fare sarebbe vivere la nostra vita come se Dio esistesse, perché con una vita del genere noi avremmo tutto da guadagnare e nulla da perdere. Se vivessimo come se Dio esistesse, ed ovviamente per Pascal esiste, guadagneremmo il Cielo. Se non esistesse, non avremmo perso nulla. Se, d'altra parte, vivessimo come se Dio non esistesse, e invece esistesse davvero, allora guadagneremmo l'inferno e la punizione, e perderemmo il Cielo e la beatitudine. Se si soppesano le opzioni possibili, la scelta razionale di vivere come se Dio esistesse è, secondo il ragionamento di Pascal, chiaramente la migliore. Quel che ne ho ricavato, sin da quando studiavo Filosofia al liceo e poi con qualche esame sulla materia all’Università con altri autori che si occupavano del mistero della vita e del suo contrario, è quanto sia difficile dominare certe questioni così complesse e alla fine ci si debba davvero affidare alla forza speculativa del pensiero umano nelle sue diverse forme. Scegliere una strada a cui credere fa tremare comunque la nostra razionalità di fronte a misteri come la morte. Passati ormai tanti anni da quando ero bambino e finivo nel giro dei cimiteri, assisto a queste celebrazioni con la convinzione non ipocrita che le persone care, ma anche quelle che non lo sono state e che abbiamo incontrato nel bene e nel male, siano parte di noi. Ha scritto Marcel Proust meglio di quanto potrei fare io: ”Le persone non muoiono immediatamente, ma rimangono immerse in una sorta di aura di vita che non ha alcuna relazione con la vera immortalità, ma attraverso le quali continuano ad occupare i nostri pensieri nello stesso modo di quando erano vivi”. Certo esiste una specie di graduatoria, perché non tutte le persone scomparse sono uguali. Alcune tornano spesso nei pensieri, altre arrivano e se ne vanno attraverso un oggetto, un ricordo, un luogo. È una specie di cimitero dentro di noi, che non ha nulla di cupo, perché il tempo addolcisce le cose e smussa gli angoli. Leggevo giorni fa un’intervista all’anziano regista Pupi Avati, che diceva: ”Sul computer ho una lista di 250 nomi di persone care che mi hanno lasciato: la sera li leggo tutti, li evoco, e li sento venire per aiutarmi a superare le mie angosce”. Ammesso che sia vero, non so se sarei capace di farlo, mettendolo per scritto. È vero però che mi capita di pensare a Tizio o Sempronio in una sorta di memoria mentale che rievoca momenti della mia vita. Non sempre ciò avviene solo con persone cui ho voluto variamente bene, ma anche con chi ho disprezzato e con chi mi hanno fatto dei torti. La vita non è solo rosa e fiori e la livella,, come Trilussa chiamava l’ineluttabile fine che ci rende tutti uguali, colpisce anche chi meriterebbe solo il nostro oblio e invece torna anche lui nei ricordi che si affollano. Questa sorta di caotiche presenze è comunque il segno che molti morti per noi restano presenze sino a che noi stessi non lo diventeremo per gli altri.