La notizia da agenzia di stampa è asciutta: “Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è arrivato a Nakhchivan, nell'enclave azera in territorio armeno di Nakhchivan per colloqui con il presidente dell'Azerbaigian Ilham Aliyev. L'incontro arriva dopo il riaccendersi delle tensioni in Nagorno-Karabakh tra Bake ed Erevan. "La vittoria delle forze di Baku contro l'esercito dei separatisti armeni in Nagorno Karabakh ha aperto nuove possibilità per una normalizzazione nella regione", ha detto Erdogan”. Torna così nell’immaginario la spregiudicatezza del leader turco, che mostra quanto sia indegno pensare alla sua Turchia nell’Unione europea ed evoca un fantasma: il genocidio armeno, di cui in fondo i fatti attuali sembrano un’appendice. Ha scritto Il Post sul dramma degli armeni: “La gran parte del genocidio degli armeni si compì nel giro di un anno, tra il 1915 e il 1916, ma i massacri continuarono anche per gran parte degli anni Venti. Dei 2,5 milioni di armeni che si trovavano nell’impero ottomano all’inizio del secolo il 90 per cento fu ucciso o deportato fuori dall’impero. Si stima che alla fine del genocidio circa un milione di armeni morì per mano degli ottomani. Alcune centinaia di migliaia di donne e bambini furono costretti a convertirsi all’Islam e furono adottati da famiglie turche, mentre moltissimi altri armeni fuggirono, creando una diaspora che ancora oggi è forte in molti paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti”. Ho letto e riletto libri e documenti sulla tutela delle minoranze linguistiche e nazionali (gli armeni sono pure cristiani e dunque pure colpiti per questo) e le esperienze più interessanti le ho fatte al Consiglio d’Europa che sul tema si è molto impegnato. Peccato che, a dimostrazione fra il dire e il fare nel diritto internazionale, la Turchia - persecutrice anche dei curdi- ne faccia parte. L’Italia sull’aggressione azera agli armeni di queste ore tace per via del gas indispensabile che arriva dall’Azerbaigian e per altro la stessa timidezza verso la Turchia, per interessi economici, l’ha sempre avuta verso la persecuzione dei curdi e le evidenti ambiguità sulla guerra in Ucraina, dando un colpo al cerchio e una alla botte. Andrea Riccardi sul Corriere della Sera è fra i pochi ad averne scritto: “Sembra una storia che si ripete: gli armeni in fuga dalle terre ancestrali, lasciando i loro abitati con le tipiche chiese dalle cupole coniche. Sta avvenendo nel Nagorno Karabakh, enclave armena di meno di 150.000 abitanti nel territorio dell’Azerbaigian, proclamatasi nel 1991, con la fine dell’Urss, Repubblica autonoma, appoggiata dall’Armenia. Le truppe azere ora hanno ottenuto la resa di quelle locali e si apprestano ad integrare la regione nell’Azerbaigian, dopo una grave crisi umanitaria che ha investito gli armeni isolati. È una storia quasi dimenticata, minore di fronte alla guerra in Ucraina. Ma legata a questa crisi. La Russia, storica protettrice degli armeni, è impegnata altrove. Nuove relazioni occidentali del governo di Erevan non colmano il vuoto della ex potenza «imperiale», che ha 2.000 soldati in Karabakh e una base in Armenia. Ora gli armeni del Karabakh stanno partendo (attraverso l’unica via aperta pur con difficoltà), temendo per la sopravvivenza sotto il controllo azero”. Quadro crudo e realistico di una violenza che strappa dalle proprie radici un popolo. Alla fine dello stesso articolo, Riccardi evoca i problemi del Caucaso e certe difficili rapporti spesso anche a causa di confini tagliati con l’accetta: ”I nazionalismi hanno sconvolto la convivenza. Nel 1905 gravi scontri avvennero a Baku, tra armeni (ancora vivevano là, spesso benestanti) e azeri. Poco dopo, nell’impero ottomano, maturò il disegno di eliminare gli armeni. Nel 1936, Stalin creò Georgia, Armenia e Azerbaigian. La popolazione era piuttosto mista. Azeri vivevano in Armenia e armeni in Azerbaigian. A quest’ultima Repubblica fu assegnato il Karabach con uno statuto di autonomia. Sulla regione vigilava il Cremlino, finché non si dissolse l’Urss. Così cominciarono le guerre. La prima nel 1994 con 30.000 morti: l’Armenia vinse occupando territori azeri che creavano continuità territoriale con il Karabakh. Ovunque le popolazioni si spostavano e i segni della presenza dell’altro venivano violati o cancellati. Il Karabakh divenne un simbolo per il nazionalismo armeno. In Azerbaigian era grande la frustrazione per la sconfitta. Venticinque anni hanno cambiato l’Azerbaigian, ricco di giacimenti di gas e petrolio, sostenuto dalla Turchia, divenuto militarmente forte. Oggi gli idrocarburi azeri sono decisi per l’indipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. E dell’Italia. Nel 2020, nella seconda guerra azero-armena, il governo di Baku si è ripreso il territorio perso e solo il Karabakh è rimasto sotto controllo armeno, un’«isola» in territorio azero, collegata con un corridoio stradale con l’Armenia (mentre gli azeri ottenevano facilità di passaggio attraverso il territorio armeno con il Nachicevan). L’accordo avvenne con la mediazione di Putin. Era prevedibile che ci sarebbe stato un terzo atto di guerra da parte di un Azerbaigian rafforzato economicamente e internazionalmente. L’avvicinamento agli Stati Uniti da parte del primo ministro armeno Pashinyan, oggi sotto accusa in Armenia per aver confidato nella Russia, non ha cambiato il quadro geopolitico. Ora, non solo l’Armenia ha perso il controllo su un territorio storico, ma si sente isolata e fragile di fronte ai più di dieci milioni di azeri, alleati con la Turchia, temendo per se stessa. Anche perché ormai, purtroppo, nel quadro internazionale, i contenziosi si risolvono troppo spesso con le armi”. Le guerre come modo arretrato e incivile per risolvere le questioni e non bastano vaghi proclami pacifisti per bloccare questa deriva, ma un reale rafforzamento del diritto internazionale.