In politica, nel piccolo e sempre stimolante laboratorio valdostano, ho studiato cose del passato che sono ancora istruttive e vivo, da almeno 45 anni, come osservatore-protagonista gli avvenimenti cangianti che fanno parte delle vicende valdostane e dimostrano la passionaccia che i valdostani hanno sul tema. E questo si deve anche allo spirito autonomista, che così sintetizzava mio zio Séverin Caveri: ”Noi Valdostani vogliamo una cosa sola, amministrare noi i nostri comuni, amministrare e governare noi la nostra Valle, questo vogliamo dire, quando diciamo: Nous voulons être maîtres chez-nous”. Tutto racchiuso in una sola frase, che attraversa il tempo e i cambiamenti. Una piccola democrazia la nostra con i suoi pregi e i suoi difetti e con la caratteristica, per certi rivolgimenti, di non annoiare mai e questo avviene in modo imprevedibile o, come nel caso di cui scrivo, prevedibile senza essere Nostradamus. Ho un grande rispetto per le tribolazioni politiche che possono portare alla scelta grave di abbandonare la forza politica con cui si è stati eletti. Una scelta mai facile, che genera veleni, ripicche e accuse in genere reciproche. Mi è capitato così, quando ho lasciato l’Union Valdôtaine e poi quando ho abbandonato in seguito l’Union Valdôtaine Progressiste. Tranquillizzo chi legge: non ho intenzione di tornare su quelle mie scelte, frutto non semplice di decisioni comunque ponderate. Oggi per fortuna guardo avanti e spero che si possa concretizzare quella réunification dentro l’Union Valdôtaine per rimarginare una ferita che è stata per me dolorosa e chi mi conosce lo sa bene. I tempi oggi sono largamente maturi e direi necessari. Già ci sperai quando lavorai alacremente nel 2015 sulla Constituante autonomiste, avendone poi una cocente delusione per certe ambiguità e per un passaggio andato a vuoto in cui invece speravo, dimostrando - lo dico ex post - una sana ingenuità che tengo sempre in tasca a mia tutela. Anche da quella esperienza negativa ricavo un pensiero: la necessità di fare le cose con rapidità per evitare che la sabbia si depositi negli ingranaggi. Specie dopo aver vissuto il 18 maggio scorso quella grande assemblea a Saint-Vincent in cui si è confermata la strada necessaria per rimettersi assieme senza se e senza ma, almeno in quella sede. Seguo ora con rispetto politico e personale la scelta di quattro consiglieri regionali eletti nelle liste della Lega, che hanno dato vita, ad un gruppo chiamato Rassemblement Valdôtain, che ricorda nella dizione del nuovo gruppo consiliare la scissione verso destra - con occhio verso la Democrazia Cristiana - di esponenti diventati ex unionisti, avvenuta nel 1963 in polemica con leadership di già evocato Séverin e la sua Giunta del Leone con Il PCI. Vedremo quale sarà in prospettiva la loro collocazione, intanto si può dire che si chiude di fatto quella situazione ambigua di esponenti leghisti che convivevano nello stesso partito e nello stesso gruppo con visioni di fatto molto diverse. Difficile dirsi federalisti con un Salvini che sta andando sempre più a destra con un nazionalismo anacronistico, come mostra - stravolgendo le origini - la presenza di Marine Le Pen al prossimo raduno di Pontida. Se si comparano i programmi politici del passato (e personalmente ho assistito alla nascita e allo sviluppo del movimento di allora) ai programmi di oggi la Lega appare un partito diversissimo e in certi casi agli antipodi dal proprio imprinting iniziale. Ma non sono fatti miei, mi limito ad osservare quanto è capitato nel tempo e la convivenza di due linee politiche diverse - non credendo personalmente alle famose convergenze parallele di Aldo Moro - con contraddizioni comunque destinata prima o poi ad emergere. Ed è emersa sul casus belli della legge elettorale, di certo su di un punto molto delicato per chi crede nel rispetto del dettato dello Statuto d’Autonomia. Se non fosse avvenuto su questo tema, la frattura si sarebbe comunque e altrimenti dimostrata. Diceva un politico francese, Lionel Jospin, che ”La politique, même civilisée, est un univers rude”.