Credo che alla fine sarebbe bene che, nella tenzone politica che non è roba da educande, si avesse il coraggio di dire le cose ”pane al pane e vino al vino”, antichissima espressione che rende l’idea. Seguo con curiosità l’evolversi della polemica sui fascisti che ci sono in giro ed è meglio usare, per ovvio distinguo storico, il termine ”neofascisti”. Condivido la prima parte della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana in vigore, che dice: ”È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista". Talmente chiara da essere rimasta, sin dal dopoguerra, sulla carta, consentendo ai nostalgici del Ventennio di godere della democrazia che essi stessi non volevano. Vittorio Foa, uno dei padri della Repubblica, partigiano di Giustizia e Libertà e frequentatore della Valle d’Aosta, raccontò: “A me è capitato, una volta, di partecipare a una trasmissione televisiva insieme ad un senatore fascista [Giorgio Pisanò, parlamentare dell’Msi, volontario nella Xª Mas] che faceva dei grandi discorsi di pacificazione: ”In fondo eravamo tutti patrioti… Ognuno di noi aveva la patria nel suo cuore… », ecc. ecc. Io lo interruppi dicendo: «Un momento. Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore» . Ragionamento limpido, cui si aggiunge una riflessione Trovo insopportabile che ci siano neofascisti che sono di tutta evidenza tali per certi discorsi che fanno, che usano il mascheramento per non dirlo, sapendo bene che fare dichiarazioni pubbliche non gioverebbe loro. Per cui restano in uno spazio borderline, ma senza mai esplicitare le proprie convinzioni. Per altro - diciamoci la verità - questo mimetismo vale anche nella sinistra estrema per chi cela dietro all’ambientalismo e al progressivo la vecchia o nuova pellaccia comunista. Estremismi nocivi, come si è visto nei totalitarismi che hanno alla fine sortito. Ci saranno state differenze apprezzabili nell’apparato ideologico e politico, ma alla fine le dittature vanno chiamate con il loro nome e senza infilarsi in distinguo da lana caprina. Questa è l’eredità più importante del cosiddetto federalismo integrale, che per il resto ormai paga - anche se resta una delle sorgenti a cui un federalista deve abbeverarsi - i cambiamenti clamorosi nel percorso dell’integrazione europea posta di fronte oggi più che mai di fronte a problemi epocali in parte nuovi e come tali da approfondire oggi con soluzioni originali. In Italia il federalismo è ormai uscito dal dibattito politico. Lo era stato più di vent’anni fa per l’ondata leghista che aveva scosso i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica con la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione in tema di Regioni con riscrittura conseguente dell’articolo 5 in chiave autonomistica dei rapporti fra Stato e democrazia locale, nonché con l’aggiunta all’articolo 116 - che diede vita alle Autonomie speciali - della discussa Autonomia differenziata per le Regioni ordinarie. Tema che suscita dibattito con la Sinistra che la votò che oggi la disconosce, rendendosi ridicola. Sinistra che in queste ore ha incredibilmente votato contro un emendamento in materia finanziaria sul tema in questione a tutela delle Autonomie speciali, lasciando tutti perplessi per questa scelta controcorrente. Ernesto Galli della Loggia lo ha chiamato in un editoriale sul Corriere il ”germe della faziosità” e cioè ”la mancanza di senso della realtà e aggressività verso l’avversario considerato un nemico a prescindere”. In questo gioco delle parti, a seconda che si sia in maggioranza o in minoranza, si perde il senso delle cose e il federalismo - avvicinatosi per un attimo come possibile destino della Repubblica - è affondato negli opposti estremismi. Estremismi con logica da sfasciacarrozze à tour de rôle. Spunta, intanto, l’elezione del Premier, che senza i contrappesi di reali poteri dei territori sarà un vero e proprio rischio.