Comincio scherzosamente, prima di diventare serio. Nel linguaggio della mia infanzia affioravano espressioni ormai scomparse del tipo ma che “storie d’Egitto” o “ma va in Egitto”. Leggo che la Crusca, dopo diverse ipotesi sulla loro origine, sintetizza che deriverebbe dalla “concezione biblica dell’Egitto come paese della non salvezza, della perdizione, dell’inferno”. Devo dire che dell’Egitto conoscevo le località sul Mar Rosso e le coste mediterranee, ma non il cuore dell’antica civiltà egizia. Per cui mi sono imbarcato - e il verbo è giusto, essendo una buona parte una crociera sul Nilo - in un viaggio nei luoghi turistico-culturali per eccellenza in un viaggio a tappe che arricchisce in profondità. Ne ho già in parte accennato, cogliendo l’occasione per parlare qualche giorno fa della “bomba demografica” dell’Africa che sarà il Continente che registrerà un’espansione incredibile. Ma un altro ragionamento con l’Egitto ancora negli occhi deriva anche da certi altri miei viaggi, che sono stati occasione importante per entrare in contatto - non pretendo di più rispetto a chi li conosce bene - con alcune realtà di quelli che sono stati chiamati con un velo di ipocrisia “Paesi in via di sviluppo”. Più concretamente si usavano un tempo le definizioni Terzo o Quarto mondo in una classifica declinante. Ogni volta che li visito in diverse parti del mondo mi ricordo del Professor Giuseppe Morosini, con cui diedi due esami all’Università: "Storia dell’Africa" e "Sociologia dei Paesi in via di sviluppo". Era un personaggio singolare: valdostano e internazionalista. Ritrovava da noi molte delle sue radici, ma assieme c’era la scelta militante, specie in Angola, dove aveva applicato sul campo quella sua visione marxista che era stata la sua stella polare. Quando lo conobbi e simpatizzai - essendo per altro zio del noto artista valdostano Bobo Pernettaz, amico di sempre - mi sembrava molto ormai cauto e misurato in alcuni suoi giudizi, forse per gli insegnamenti di una vita in parte avventurosa. E fra gli insegnamenti emergeva la delusione del post colonialismo, quando gli afflati di libertà troppo spesso finivano per sortire regimi con dittatori più o meno feroci e élites ingorde e incapaci. Intendiamoci: nessun rimpianto per un passato con popoli interi sotto il giogo di noi occidentali, ma l’angoscia per il fallimento di democrazie abortite. E c’è di più: un impasto terribile di mancanza di democrazia, povertà, ignoranza, malattie, degrado sociale, disastro economico, violazione dei diritti civili, che - lo ricordo incidentalmente - spingono perseguitati e disperati verso la sola luce in fondo al tunnel: l’Occidente. E questo avviene senza regole chiare e la gestione dei flussi dei disperati (non tutti meritevoli di asilo e di accoglienza) avviene attraverso sistemi malavitosi con schiavisti del nuovo millennio. L’Egitto è una dittatura e non ha mai conosciuto, come tanti altri Paesi, una vera democrazia. Per cui è legittimo interrogarsi se e come la democrazia, già fallace in Occidente, possa essere davvero esportata laddove lo Stato di diritto o meglio dei diritti non esiste. Abbiamo peccato di presunzione nel pensare che una certa modellistica di democrazia sarebbe stata facile da esportare? In che cosa abbiamo fallito se il diritto internazionale stenta accora ad affermarsi e anzi la democrazia sembra spegnersi in molti luoghi? Sono temi tutt’altro che banali per le implicazioni pesanti sull’umanità e sulla civile convivenza con un mondo sempre più complesso. E certo, malgrado tutto, non bisogna arrendersi.