Torno ad Auschwitz (Oświęcim in polacco) per l’ennesima volta con scolaresche valdostane, accompagnato - come già avvenne con il resto della famiglia - da Alexis, l’ultimogenito. Ho già scritto come questo avvenga per tre ragioni, che ricordo brevemente. La prima è una scelta, che presi quand’ero Presidente della Valle, e cioè quella di portare ogni anno degli studenti valdostani nel luogo più abietto dell’Olocausto voluto dai nazisti. Si tratta, precisando ogni volta l’orrore per qualunque parallelo totalitarismo, di ricordare come la Shoah (termine preferito dagli ebrei) mantenga una sua particolarità. Non si tratta solo di persecuzioni antisemite, ma di un piano orchestrato da Adolf Hitler per un’eliminazione del popolo ebraico, detta “soluzione finale”. Vero è che i lager ospitarono anche dissidenti politici, omosessuali, zingari in una logica persecutoria, ma la macchina dello sterminio nacque in modo rozzo e poi divenne sofisticata per uccidere e bruciare gli ebrei di tutta Europa. Questa resta una singolarità terribile e marcante, che sfugge a qualunque tentativo negazionista, revisionista o benaltrista. La seconda ragione è che visite di questo genere sono come una vaccinazione contro le dittature e i regimi a diverso titolo liberticidi. Chi visita un lager ne esce pieno di commozione e di emozioni e non può che riflettere su certi fatti documentati e sulla condizione umana quando torture, uccisioni, esperimenti spaventosi, crudeltà inutili trasformano gli uomini in animali feroci e in burattini nelle mani di matti al comando. La terza ragione, che molti lettori già sanno, è che mio papà ci finì ad Auschwitz per un certo periodo, perché internato con altri militari valdostani che non avevano raggiunto la Repubblica di Salò nelle mani dei tedeschi. Per questo fu portato lì e comprese quanto avveniva e lo raccontava, anni dopo, con evidente raccapriccio, essendo stato ferito nell’animo per sempre da questa esperienza. Ecco perché i suoi nipoti devono sapere, ammirando quel loro nonno, uomo probo che accompagnava prima di quel viaggio ebrei che cercavano la libertà in Svizzera attraverso i colli delle nostre montagne valdostane. Ad Auschwitz si è come nudi, impotenti, spaventati, indignati, piangenti, svuotati: tanti stati d’animo che emergono dai racconti delle guide, dalle sensazioni nell’attraversare i luoghi, guardare le camere a gas, capire i percorsi dai vagoni piombati al fumo dei camini, i riti fra il grottesco e il sadico, la morte che aleggia. Rivedo la foto di mio papà arrivato ad Auschwitz, appena ventenne, con una blusa con numero e lo sguardo fisso: l’inizio di un lungo anno, terminato poi a Cracovia con una fuga avventurosa. Sappiano i miei figli di Sandrino precipitato nel cuore di uno dei luoghi spaventosi della Seconda guerra mondiale, che deve convincerci ad essere contro la guerra e contro chi - pensiamo a Putin - oggi l’alimenta in un progetto espansionista contro l’Europa unita. Lo sappiano i miei figli per combattere chi ritorna da quel passato, incarnato in neofascisti e neonazisti, che falsificano la Storia, che tornano con nostalgia a quanto dovrebbe essere sepolto per sempre e essere solo oggetto di vergogna e di rigetto. Questo vale - lo ridico - per ogni altra persecuzione, strage, genocidio, privazione della libertà, razzismo e xenofobia e ogni altra bruttura in questi medesimi solchi. So bene dei gulag, dei campi di rieducazione, delle foibe, delle lotte tribali e etniche, delle stragi degli armeni, della distruzione delle popolazioni indigene, di chi fugge dai propri Paesi perché perseguitato, di chi scappa per fame e per paure. L’elenco è purtroppo incompleto e come nel quadro su Guernica di Picasso potremmo aggiungere elementi a questo affresco così tragico. Ma Auschwitz resta Auschwitz come simbolo da visitare e capire. Si esce come se si fosse trattato di un viaggio al rallentatore, avvenuto in un luogo apparentemente surreale e invece terribilmente reale: una full immersion da choc che ti rende migliore.