Ci sono pudori necessari anche verso i dolori altrui ed è bene affrontarli in punta di piedi e solo sussurrando a bassa voce per non disturbare. Non sempre è facile interagire con chi abbia avuto un lutto. Ogni volta che mi capita di partecipare alla morte di qualcuno non sempre riesco a trovare le parole giuste e invidio chi lo sappia fare, perché è un dono essere consolatori, senza violare gli spazi così umani di chi patisce. Ci pensavo guardando con sincera partecipazione umana e con un turbinio di pensieri, l’epigrafe di un giovane studente che in questi giorni ha purtroppo lasciato la vita per sua scelta. In Valle d’Aosta ognuno di noi ha conosciuto persone che se ne sono andate così e abbiamo visto e vissuto lo strazio per eventi che colpiscono chi resta. Quando cioè non ci sono elementi consolatori e lenitivi che tengano di fronte alla brutalità dell’evento. Spesso ho apprezzato le omelie di quei preti che di fronte a certe tragedie familiari hanno saputo al momento delle esequie, con garbo ma senza eccessi retorici, trovare quegli elementi di vicinanza e di affetto che sono fra le poche cose che non stridono con morti subitanee alle quali non si può dare una spiegazione razionale. L’ho vissuto, parlandone con un amico d’infanzia, che ha perso il figlio, un figlio straordinario, intelligente e studioso, ritrovato inopinatamente un mattino senza vita, in assenza di qualunque segnale d’allarme che potesse far presumere la scelta estrema. Decisione che lascia sgomenti e angosciati sul perché nulla si fosse percepito per poter evitare la tragedia e ci si carica di pesi pieni di interrogativi che in larga parte resteranno tali. Ha scritto Claudio Magris, abile indagatore dell’animo umano, citando in premessa uno scrittore argentino, che morì a 99 anni: “Ernesto Sábato ha scritto di aver pensato alcune volte al suicidio e di essersene astenuto per non recare dolore agli altri, convinto che non sia lecito far soffrire nessuno, nemmeno un cane. Ma se uno non ce la fa, se il mondo che come Atlante egli regge sulle sue spalle è per lui troppo pesante e lo schianta, lo maciulla? Chi può imporre a un altro di sopportare sofferenze per lui insostenibili? Sofferenze che possono essere anche solo psichiche, ma non perciò meno crudeli e intollerabili. Forse si ha più comprensione per i dolori fisici che per quelli psichici e spirituali. Ma perché un cancro dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla disperazione?”. Tema difficile, profondo e bisogna essere rispettosi e mai liquidare la scelta estrema con faciloneria. Cesare Pavese fu uno dei più importanti scrittori italiani del secolo scorso. Morì suicida il 27 Agosto 1950 a Torino ingerendo 10 bustine di sonnifero e lasciò una frase ben nota e lapidaria di suo pugno: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Anni dopo si seppe di un altro biglietto, ritrovato la sera della morte, sul quale Cesare Pavese appuntò 3 frasi. Nella prima, tratta proprio dai ‘Dialoghi con Leucò’ il libro che fu trovato accanto al corpo, si legge: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. La seconda frase è una citazione dal Diario Pavesiano, “Il mestiere di vivere”, e venne scritta qualche giorno prima della sua tragica fine: “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”. La terza frase, che potrebbe essere stata pensata e messa per iscritto nelle ultime ore di vita, è lapidaria: “Ho cercato me stesso”. Sembra un paradosso un epitaffio così fatto. Eppure il grande mistero della morte si spalanca anche e forse soprattutto di fronte a chi, non sopportando più la vita, la lascia anzitempo con un addio drammatico.