Quante volte, percorrendo le nostre vallate valdostane, ci prende il groppo in gola in paesi e frazioni dove ad occhio nudo - senza consultare tabelle demografiche - ci si accorge del drammatico spopolamento. Fenomeno di un abbandono umano dei luoghi, che si acuisce in modo doloroso con la crisi delle nascite che accelera il rischio di morte di intere comunità, alcune delle quali per essere onesti appaiono già spente. Ecco perché, pur partendo da una realtà distante come la Calabria, ho trovato interessante la lettura di un libro, intitolato La Restanza, pubblicato da Einaudi e scritto da Vito Teti, professore ordinario di Antropologia culturale all'Università della Calabria, La sintesi in copertina è mirabile: “Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente”. I ragionamenti sono in larga parte applicabili anche alla nostra realtà. Provo a riassumere qui alcuni pensieri che condivido e che partono dalla necessità - scrive Teti - di affondare la retorica sul tema contro “l'elogio del piccolo borgo (ma perché non si è parlato di paese?) dal quale lavorare a distanza, a volte da parte di persone che conoscono i paesi interni per flussi turistici vissuti in superficie e senza intima esplorazione dell'alterità. Questa radicale immersione nel quid metastorico e culturale dei luoghi è l'aspetto che piú mi sta a cuore: riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita ed umanissima della periferia, mi sembra possa essere una delle vie di salvezza per l'intero sistema-Paese”. Apro una parentesi. Qualcuno avrà sentito questo termine “aree interne”, inventato a suo tempo dal Ministro Fabrizio Barca, che nel dibattito nazionale ha finito per cancellare la parola che ci interessa e cioè Montagna ed è stato un errore epocale. Chiusa parentesi. Teti si spiega bene in molti passaggi e c’è una frasetta brutale ma realistica nel parlare di certi paesi dove “C’è piú popolo al camposanto che in piazza”. Ma lo fa con amore e speranza, lui che ha scelto di tornare a vivere nel paese natio della Calabria: “Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni”. È una militanza attaccante che condivido e che critica chi ci marcia sui “borghi” (definizione fuorviante dei paesi, come già detto): “Promuovere questa «retrotopia» sui media, a mitizzarne la presunta purezza, sono spesso gli stessi che, negli ultimi decenni, hanno creato fortune private e pubblici disastri con una visione urbanocentrica, persone che in tempi recenti ancora hanno considerato i paesi come luoghi di arretratezza e di angusto conservativismo, da cui fuggire e da abbandonare al loro destino. Si tratta di una forma subdola di neoetnocentrismo che incontra una moda esotica, neoromantica, di quanti non pensano al paese come ad un luogo abitabile o da abitare, ad una comunità da inventare in forme del tutto nuove, e che di fatto rischiano solo di porre una lapide dove versare le poche lacrime ancora disponibili, dove esercitare le loro sterili malinconie. Il ritorno al paese viene oggi spesso evocato nell’ambito di una visione estetizzante delle rovine, espressione di una sorta di flânerie contemporanea.” “Retropia” è il titolo di un libro di Zygmunt Bauman, parola che indica un’utopia che idealizza il passato, considerato più rassicurante. E invece Teti guarda avanti: “Sulla scena geografica del vecchio e nuovo mondo si affacciano individui e gruppi che hanno bisogno d’inventare il villaggio, le origini, la piccola patria come luogo di una diversità da recuperare, di una superiorità da ostentare. Ci vorrebbe una piú accorta antropologia dei paesi per creare un progetto capace di oggettivare bellezza e valori, di farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi in cerca di terra. La memoria è importante. Occorre avere contezza del fatto che la montagna e le aree interne non erano zone improduttive e isolate, ma mobili luoghi di vita. Oggi la montagna, con le sue risorse, con i suoi paesaggi, con le nuove forme di economia, con le nuove sensibilità e consapevolezze, potrebbe tornare a immaginare e a decidere un diverso destino”. Bisogna farlo in fretta per evitare di “distruggere i mondi quando sono in vita per poi costruire la retorica del pianto e del rimpianto quando sono ormai moribondi o si “pietrificano” in un reliquario in decomposizione.” Ed è necessario evitare errori: “Nelle spopolate aree interne, nella speranza di attrarre residenti, è stata proposta piú volte la vendita «a un euro» delle case abbandonate dai proprietari. Si tratta dello slogan di una presunta azione di salvaguardia che, però, è rivolta alla vita degli immobili e non a quella delle persone, che punta ad attivare microcircuiti edilizi, che incoraggia le fughe-singhiozzo dalle città invivibili, ma che in nessun modo si configura come un progetto organico teso alla costruzione di nuovi legami comunitari”. E ancora: “I paesi non si rigenerano con gli slogan, con proposte estemporanee che seducono per fascinazione. Non basta ristrutturare qualche casa per invertire dinamiche di infragilimento umano e di rarefazione dei servizi di prossimità spesso oltre la soglia dell’irrimediabilità. Le soluzioni “facili” aiutano poco ed oscurano la complessità del riabitare possibile dei paesi. Riabitare significa ricostruire comunità, creare le condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuol restare, per favorire il ritorno di chi vuole tornare, per accogliere chi ha maturato la scelta della vita da paese. Ristrutturare e recuperare immobili è solo un tassello della rigenerazione. A volte, in pochi casi, diventa possibile, ma occorre distinguere la nascita di una nuova comunità da quella di un villaggio turistico aperto solo d’estate. Senza un’offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali – la scuola, la farmacia, i trasporti locali, la connessione a internet, un presidio sanitario di prossimità – il ritorno in “vita” di qualche casa non sarà sufficiente per consentire un’esistenza dignitosa ai residenti e per contrastare il declino". Insomma un cantiere di idee e proposte per nulla banali, ma con un spirito da applicare che sia chiaro e con una scelta affettuosa: “«Cura» è una parola densa di significato, è sollecitudine, premura, attenzione, riguardo, e il suo orizzonte semantico racchiude anche l’amore e la pena amorosa. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica, accoglie in sé tutta l’attenzione necessaria nel rapporto tra l’uomo e le piante, tra l’uomo e gli animali, nel mondo che dividono. La cura è amore che accetta, perché possiamo amare in modo maturo solo ciò che conosciamo nella sua verità e nudità. E i luoghi richiedono amore vero, quello che nasce da una salvifica schiettezza, quello che mette a nudo bellezze e bruttezze per esaltare la profonda complessità del reale. Cura dei luoghi significa anche farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere o edulcorare, nascondere o rifiutare in ogni modo. Cura è saper fare i conti con il dolore. L’avere cura è un paradigma etico, morale, estetico. Cura significa avere attenzione per le persone, per i rapporti, per i legami. La cura ha una visione globale del corpo, del corpo-paese, del corpo-comunità e dell’alterità che al corpo si accosta”.