L'altro giorno nel paese dove sono cresciuto, Verrès, ho chiesto notizie del campetto di calcio dove giocavo a pallone, che si trova sotto il campanile della Collegiata di Saint-Gillles, un complesso che risale all'anno Mille. Risposta: «Non ci va più nessuno». Vero! Guardatevi attorno e, per chi ha vissuto da piccolo e poi da ragazzo, la logica di una partitella a pallone dovunque capitasse la situazione è deprimente. La illustra con immagini condivisibili Francesco Florista in una bella lettera al "Corriere": «L'Italia preindustriale e preconsumistica degli ultimi anni 50 e primi anni 60 non era, poeticamente e nostalgicamente parlando, solo quella pasoliniana delle lucciole; era anche, nei miei ricordi di undici-dodicenne, quella di noi ragazzini in pantaloni corti. Li portavano tutti, sempre, anche in inverno, fino ai 12-13 anni; unica eccezione, ma non sempre, Prima Comunione e Cresima».
«E con gli stessi pantaloni corti con cui al mattino si andava a scuola, il pomeriggio si giocava a pallone - continua Francesco Florista - Era il gioco più economico e democratico: solo ogni tanto la colletta per il pallone (quello di cuoio, più caro, era ancora cucito a mano). Il tennis, quello, era per signorini, per via di racchetta, palline e soprattutto noleggio campo. Si giocava nei prati, dove quattro sassi un po' sbilenchi, fissavano i limiti del gioco - ovvero gli immaginari pali delle porte - tra qualche ciuffo d'erba spelacchiato; e si giocava (quasi) a piedi nudi, come i ragazzi della via Gluck di Celentano. Oppure in strada e il grido "Macchinaaa" interrompeva di un poco la partita. Pur senza conoscerne l'origine inglese, il calcio d'angolo era il "corner" e il fallo di mano "èns". Quei pochi che non giocavano erano considerati paurosi disertori; tirare il pallone di punta una indicibile macchia. Le partite duravano fino a quando il buio ci costringeva a fare ritorno a casa, a disinfettare con acqua ossigenata e polvere di "Streptosil" il solito ginocchio sbucciato. La sera, poi, mi portavo il pallone sotto le coperte, a dormire con me: era l'innocente, stravagante e inconsapevole omaggio di un dodicenne alla rappresentazione ludica più bella del mondo». Le ginocchia sbucciate erano un classico e ci mettevano il loro anche le cadute in bicicletta, la vera chiave per essere liberi di muoversi. Non è solo la crisi demografica che cambia la socialità, come si fa invocando il venir meno del cortile o della "compagnia" come nucleo della vita giovanile, ma esiste un problema serio attorno all'uso crescente dei dispositivi digitali come i telefonini e i tablet che assorbono ormai anche il tempo libero. Io stesso mi rendo conto di abusare spesso della strumentazione che abbiamo a disposizione a detrimento della vita reale, per cui non faccio moralismo spicciolo. Ma in fase formativa, quando si cresce, quello che conta è avere i piedi ben saldi per terra e se non li si ha purtroppo si perdono pezzi di vita irrecuperabili, come prendere a calci una palla per stare con gli amici.