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27 dic 2021

Autonomie alpine

di Luciano Caveri

Il mio amico Annibale Salsa, che è anche membro del Consiglio di amministrazione dell'Università della Valle d'Aosta, non perde occasione per parlare con la solita competenza delle questioni riguardanti la montagna, intrecciandola con l'autogoverno. Questa volta lo fa sul quotidiano del Trentino, riferendosi ad una discussione locale, ricordando un anniversario. Mi riferisco al 19 Dicembre del 1943 data in cui venne scritta la "Carta di Chivasso". Così la evoca Salsa: «Si tratta di una data importante per la storia del pensiero autonomistico all'interno delle regioni alpine italiane: un primo tentativo di porre su nuove basi l'assetto istituzionale futuro dell'Italia dopo la caduta del fascismo (8 settembre 1943). Da un punto di vista storico, il tema delle autonomie si pone allorquando la nascita degli Stati nazionali moderni, fondati sull'equazione Stato-Nazione, tende ad assimilare in un unico e indivisibile Stato centralizzato secondo il modello giacobino - un popolo, un ordinamento, un territorio - i piccoli popoli che, negli ordinamenti di "Antico Regime", costituivano il variegato mosaico degli Stati territoriali alpini».

«Il problema del rapporto fra minoranze e maggioranze in chiave etnico-linguistica - continua Salsa - non si poneva affatto nei contesti politico-amministrativi pre-moderni. Ognuno parlava la propria lingua e, per comunicare, ricorreva a una lingua franca compresa da tutti. Le comunità di montagna si autogovernavano dal tardo medioevo (secoli XII-XIII-XIV) sulla base di prerogative e privilegi concessi dai Signori territoriali a compensazione per le condizioni estreme di vita e di lavoro richieste in presenza delle grandi trasformazioni agrarie. Queste trasformazioni si possono riassumere in interventi radicali di esbosco, di decespugliamento, di spietramento, destinati a cambiare i paesaggi della montagna e a spingere ad altitudini sempre più elevate gli insediamenti stabili a seguito del riscaldamento climatico medievale. I privilegi riconosciuti ai dissodatori consistevano in quelle "libertà di dissodamento" colonico che in molte regioni alpine verranno a costituire il fondamento delle autonomie (Comunità walser e masi bavaro-tirolesi). In altri casi, sarà la conferma di antiche pratiche di autogoverno dei beni collettivi (pascoli e boschi) che le comunità degli "Antichi originari" ("Regole", "Magnifiche Comunità", "Vicinie", "Consortèle", "Consorterie", "Patriziati" tramandavano da tempi lontanissimi - "ab immemorabili" - già in epoca pre-romana. In questo ambito vanno inquadrate le autonomie trentine, valdostane, ampezzane. A partire dal XVIII secolo gli Stati moderni, in primis la Francia e successivamente lo Stato Sabaudo (Vittorio Amedeo II) e l'Impero Asburgico (Giuseppe II), cercheranno di rafforzare il potere centrale a scapito delle autonomie territoriali. Anche il Trentino vedrà rifiutata, nel XIX secolo, la richiesta di autonomia nel quadro della Provincia del Tirolo. Il trionfo dei nazionalismi e degli sciovinismi, nati nell'Ottocento su basi democratiche ma trasformatisi nel successivo secolo XX in totalitarismi, segnerà la fine delle autonomie e il tentativo di assimilare i "popoli diversi" in un'unica compagine nazionale. L'affermarsi degli Stati nazionali porterà le antiche comunità ad auto-percepirsi "minoranze etnico-linguistiche" e ad assumere atteggiamenti conflittuali nei confronti del potere centrale. Questo atteggiamento, indotto dagli eventi, contribuirà a far passare nella pubblica opinione l'idea che il diritto all'autonomia debba riguardare soltanto i piccoli popoli che parlano una lingua diversa da quella nazionale. Ancora oggi molti italiani pensano che il Trentino, per il fatto di essere una Provincia italofona, non meriti il riconoscimento di uno Statuto Speciale che invece spetterebbe - seppur obtorto collo - alla Provincia di Bolzano o alla Valle d'Aosta. Nei dibattiti e nelle riflessioni di molti commentatori rimbalza spesso questa narrazione che trova, in un'opinione pubblica digiuna di queste cose, una conferma del tutto scontata, quasi ovvia. Troppo frequentemente, per carenza di documentazione storico-giuridica, ci si dimentica che le autonomie alpine trovano la loro giustificazione millenaria nella peculiarità dei territori. Quelle forme di autogoverno venivano accordate sulla base di motivazioni economiche e sociali, non etniche e linguistiche». La lunga citazione consente una riflessione interessante. Di come - lo dico spesso anche nel dibattito in Valle - la questione linguistica sia relativamente nuova, nel flusso dei secoli, perché prima ogni richiesta autonomistica aveva prevalentemente la particolarità del territorio montano e i suoi riflessi economici e sociali come causa innescante nei rapporti con i regimi che si occupavano di questi territori. Torno a Salsa: «Nella ricorrenza della "Carta di Chivasso", sottoscritta clandestinamente nella cittadina piemontese fra esponenti di spicco della comunità valdostana e di quella valdese a tre mesi dalla caduta del regime, riemerge un tema ancora oggi attuale nel dibattito fra regionalisti e federalisti. Nel documento si afferma testualmente: "Il federalismo rappresenta la soluzione del problema delle piccole nazionalità e la definitiva liquidazione del fenomeno degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l'avvento di una pace stabile e duratura. Un regime federale e repubblicano a base regionale e cantonale è l'unica garanzia contro un ritorno della dittatura". E ancora: "Alle valli alpine dovrà essere riconosciuto il diritto di costituirsi in comunità politico-amministrative autonome sul tipo cantonale. Ad esse dovrà comunque essere assicurato, quale che sia la loro entità numerica, almeno un posto nelle assemblee regionali e cantonali". Tema attualissimo anche in Trentino è quello degli accorpamenti fondiari necessari a contrastare la frammentazione dei fondi agricoli, pregiudizievole per l'agricoltura di montagna. Nel documento di Chivasso si sostiene la: "necessità di scambi e compensi di terreni e una legislazione adeguata della proprietà familiare agraria troppo frammentata" al fine di contrastare il fenomeno dello spopolamento. Altro punto fondamentale è la richiesta di una: "totale autonomia in materia scolastico-culturale, economico-agraria, lavori pubblici e ordine pubblico in ambito locale". In quel contesto particolare le tesi regionaliste dello storico valdostano Federico Chabod - fautore della nascita di una Regione autonoma a Statuto speciale (come sarà la Valle d'Aosta e il Trentino-Alto Adige relativamente al primo Statuto) - si confronteranno con quelle federaliste del padre dell'autonomia valdostana Émile Chanoux, fautore di uno Stato italiano su basi federali secondo il modello svizzero dei Cantoni (ossia Repubbliche autonome e non semplici Regioni). Nella Costituzione della Repubblica italiana (1° Gennaio 1948) il modello regionalista, più blando in fatto di autonomia rispetto a quello federale, avrà la sorte migliore. Tuttavia la primogenitura valdostana nel dibattito sulle autonomie alpine, dove il federalismo verrà contrapposto al regionalismo, trova una parziale conferma ancora oggi nelle funzioni accorpate di presidente regionale e di prefetto/commissario di Governo che lo Statuto di quella Regione autonoma prevede, caso unico in Italia». Già che, come la deputata Elisa Tripodi, che dovrebbe rappresentare la Valle d'Aosta alla Camera e che vorrebbe sradicare dallo Statuto questa particolarità, dovrebbe studiarsi la "Carta di Chivasso". Aggiungo solo, per completezza, che lo scontro ideologico e politico nel primo dopoguerra non fu fra Chabod e Chanoux, morto purtroppo nel maggio nel maggio del 1944, ma dal suo erede politico, Severino Caveri, troppo spesso oscurato, malgrado il suo ruolo essenziale.