Evviva il Presidente Sergio Mattarella, che rimpiangeremo per l'equilibrio con cui è riuscito a mantenere saldo il suo ruolo in anni complessi nel mare agitato di una politica senza bussola. Mi spiace non averlo incontrato in questi anni al Quirinale per rievocare quella amicizia che ci legò negli anni vissuti assieme alla Camera dei deputati. Chissà che l'occasione non si avrà quando cesserà l'esperienza di Capo dello Stato. Mi ha fatto molto sorridere e anche compiacere una sua recente sortita - uscita in un inciso in un discorso pronunciato all'Università di Siena - in cui ha detto queste frasi partendo dall'acronimo "PNRR", con cui io stesso convivo nel lavoro quotidiano.
Così Mattarella: «E sono lieto di registrare alcuni segni positivi che emergono. Lo ha ricordato già il Rettore. In quel programma governativo, chiamato con l'acronimo "PNRR" (apro una parentesi, Magnifico Rettore. Non so se è stato fatto in qualche ateneo, ma se così non fosse sarebbe utile uno studio per approfondire le conseguenze dell'uso smisurato degli acronimi sul linguaggio e sulla facilità di comunicazione), in quel programma, da chiamare con il suo nome per esteso, "Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza"». Odio gli acronimi, che avevo constatato usatissimi in Francia e il cui uso, anche su stampo anglofono, si è diffuso come una malattia in Italia e lo constato ogni santo giorno nel linguaggio comunitario o in quello scolastico. Siamo investiti da acronimi che vanno decriptati e che talvolta sembrano gutturali espressioni esoteriche. Gianantonio Stella sul "Corriere" lo ha così commentato: «"Amnnpp": (…) c'è un drammatico problema d'incapacità dello Stato in tutte le sue incarnazioni politiche e burocratiche di farsi capire dai cittadini. Erano anni che lo dicevano i linguisti, lo sottolineavano gli osservatori più attenti, lo riconoscevano perfino pezzi della burocrazia e della magistratura. Lo dice un parere del 2014 del Consiglio di Stato sulla "Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera" proposta dal ministero della Salute: "Va rilevato come l'intero provvedimento (...) si caratterizzi per una scrittura assai lontana dai buoni canoni di un periodare piano, comprensibile a prima lettura ed elegante e per un uso assai frequente di acronimi e di espressioni in lingua straniera, il cui ricorrere - secondo le regole della redazione dei testi legislativi - andrebbe vietato". Rileggiamo: "vietato". Magari!». Aggiunge il giornalista: «E torniamo a quanto scrisse tanti anni fa (batti e ribatti magari serve) il grande Tullio De Mauro: "Dobbiamo essere tutti rispettosi delle terminologie tecniche" e "il matematico deve parlare da matematico" e "i microbiologi non sono obbligati a farsi capire da tutti", ma "l'avviso sulle carrozze ferroviarie no. (...) Deve essere scritto in modo che lo capiscano tutti". Vale per i treni, vale per gli uffici comunali, vale per gli ospedali... Che senso c'è a usare parole defunte come "elasso" o sventagliare a tutto spiano acronimi? Il messaggio ai cittadini è: questo è il linguaggio mio, il territorio è il mio, di qua devi passare. Un'idea padronale del ruolo, del potere, del prestigio... Sintetizzava amaro Trilussa: "Se vôi l'ammirazzione de l'amichi / nun faje capì mai quello che dichi". Francesco Sabatini, presidente onorario dell'Accademia della Crusca, spiega che per carità, "Gli acronimi possono anche essere utili: pensi al "Dna". Quando mai scriveremmo "DeoxyriboNucleic Acid"? Ormai è una parola intera e molti, più o meno, hanno idea di cosa si tratti. O pensi a "Fiat": che aveva dentro la creatività, il futuro... Possono essere perfino belli, talvolta. Il guaio è che troppo spesso questi acronimi vengono usati apposta per essere indecifrabili". "Sarà una coincidenza che tra le sigle più incomprensibili ci siano quelle che riguardano le tasse o il catasto?", chiede Michele Cortelazzo, autore del recente "Il linguaggio burocratico" (Carocci editore). E risponde: "Niente affatto. Per cominciare, sono sempre nuove, diverse, cambiano continuamente, devi capire che cosa significano e qualche volta non significano niente. Prendiamo l'Isee. Cos'è? "L'Indicatore Situazione Economica Equivalente". Cioè?". Il grande Paolo Rossi, sotto un cartello nel quale erano sparse qua e là un delirio di sigle che toglievano il sonno a chiunque avesse a che fare con l'edilizia, l'urbanistica, i regolamenti comunali, si inventò sul palco un rap irresistibile mischiando i "gulp!", "crash!", "bum!" tipo Paperopoli con raffiche di "PdRIc", "Poc", "Pit", "Piau", "Qtr", "Pua", "Ctru", "Vas", "Drag" e via sparacchiando. Gli spettatori, merito dell'attore e di quel testo che nessuno avrebbe potuto mai scrivere, ridevano come matti. Ma era, insieme, agghiacciante». Infine: «Oggi, come scrive lo stesso Cortelazzo, si fatica a mandare a memoria i nomi dei ministeri "come "Maeci - Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale", "Miur - Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca", recentemente suddiviso in due ministeri, "Mef - Ministero dell'Economia e delle Finanze", "Mise - Ministero dello Sviluppo economico" per non dire del Ministero dei Beni Culturali dal nome via via ritoccato con l'aggiunta o la rimozione dell'ambiente o del turismo fino a comporre l'acronimo "Mibact". Una leccornia, per le mezzemaniche. Un orrore per chi ama l'Italia per la sua bellezza. Dei luoghi, della lingua». Gli ha fatto eco Massimiliano Parente su "Il Giornale": «Che io ci ho messo un po' a capire, all'inizio credevo fosse una pernacchia scritta male, poi un nuovo partito dei partiti che stanno al governo, tipo "Partito Nazionale Ragionevoli e Rabbiosi", poi ho capito che era "Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza". (Tra l'altro vorrei sapere a chi è venuto in mente di usare la parola "resilienza", da dargli l'ergastolo). Aveva già iniziato Conte, in piena pandemia, con una diretta "Facebook" a settimana per annunciare un nuovo "Dpcm", e ci godeva tantissimo, ogni volta, a dire "Dpcm", perché lo faceva sentire importante e molto presidente del Consiglio dei Ministri (diciamo "Pdcdm"), e dopo ogni diretta ognuno aveva qualche amico che gli diceva "hai sentito il nuovo Dpcm?". "Eh?". Poi ci siamo abituati. Perché dire decreto era troppo facile, vuoi mettere, Conte che legge il nuovo "Dpcm". Ora non si parla più di "Dpcm" ma di "Pnrr", al "Covid" ci siamo abituati (starebbe per "COrona Virus Disease", che potevamo comunque dire "Coronavirus", ma magari tutti avrebbero pensato a un virus partito da Mauro Corona), seguendo le direttive dell'Oms, schierandoci pro o contro il "Mes", e battendoci contro la "Dad". Quest'ultima (la "Didattica a Distanza") all'inizio credevo fosse una rivolta delle femministe contro i papà, o che siccome le scuole erano chiuse dovevano essere i papà a insegnare, anche perché comunque c'è Mario Draghi che prima di Mattarella si era pronunciato contro l'uso eccessivo degli anglismi, dal "lockdown" allo "smartworking". E detto da lui, che viene dal "Mit" (acronimo di "Massachusetts Institute of Technology"), magari significa veramente che stiamo esagerando anche lì, soprattutto se la terza dose cominciamo a chiamarla "booster", che per me va benissimo (mi fa pensare a un razzo di Elon Musk), ma un "no-vax" chissà cosa pensa che sia, vaglielo a spiegare che uno si deve fare un booster. Tuttavia se Mattarella e Draghi sentissero come parlano i giovani penso che perderebbero ogni speranza. Un "Omg" per esempio non è una "Ong", ma significa "Oh My God". Una cosa veramente imbarazzante è "cringe". Quando qualcuno polemizza con un altro lasciandolo ammutolito lo sta "blastando", perfino se è Roberto Burioni che litiga con un anonimo antivaccinista su "Twitter". Se poi l'antivaccinista è un "millenial", gli risponde sistematicamente: "ok, boomer". Io, siccome, pur non muovendomi mai di casa, parlo con i giovani perché gioco online con la "Playstation", mi sono dovuto adattare, quindi parlo giovane anche io, anche se non ho capito se mi aiuta a sentirmi meno vecchio o a deprimermi di più». Esilarante ed assieme triste verità.