Le cose non sono mai facili e la loro banalizzazione e persino la loro semplificazione sembrano essere uno dei mali dei tempi che viviamo. A fronte di un generale abbassamento della qualità culturale, si sceglie il messaggio basico, come se qualunque atteggiamento intellettuale fosse da vivere come snobismo o appesantimento. Meglio il "terra a terra" ed il messaggio reso semplificato per non ferire nessuno. Bisogna tenere, insomma, l'asticella bassa in una logica di egualitarismo al ribasso. Ci pensavo, leggendo come ogni domenica la lettera del "Grand Continent", questo sito online di elevato profilo, che racconta storie che potrebbero essere considerate élitarie e invece servono ad aprire la mente in un confronto di idee in un mondo in cui troppi si fanno un'idea e a quella di rassegnano, arroccandosi. Quando, invece, almeno come mia regola ho sempre guardato a chi ne sapeva di più nella speranza di elevarmi al suo livello e soprattutto pronto a essere convinto del contrario, quando mi si convinceva con buone ragioni.
La lettera di questa settimana si occupa di un caso struggente, tenuto sottotraccia nel nome - temo - del politicamente corretto: «Esattamente un anno fa, un insegnante francese di storia e geografia, Samuel Paty, veniva assassinato per aver mostrato vignette di Maometto in classe durante una lezione sulla libertà di espressione. (…) Stranamente, e dolorosamente per la Francia, l'indignazione, la rabbia e la difesa assoluta dell'insegnante non sono state unanimi nel mondo. I regimi in cui regna l'Islam politico (Turchia, Pakistan, Arabia Saudita...) non hanno tardato a sollevare la questione del "diritto alla blasfemia". Questa nozione, falsa agli occhi di qualsiasi paese laico, attesta la perversione della nostra concezione dei diritti umani sotto l'effetto della radicalizzazione del dibattito globale degli ultimi due decenni sul ruolo della religione. Da parte sua, il "New York Times" si è disonorato minimizzando l'evento ed evocando insidiosamente una responsabilità condivisa. L'ignobile assassinio di Samuel Paty è stato quindi una rivelazione del fatto che le più grandi vittorie della democrazia non sono mai vinte per sempre». Frase quest'ultima da appuntarsi a futura memoria. Più avanti si osserva e mi sento coinvolto con la mia laurea ad indirizzo storico-politico: «La Francia oggi è in lutto, come tutta la comunità di storici a cui Samuel Paty apparteneva. In Occidente, il colore del lutto è il nero. È proprio a questo colore che Samuel Paty, allora studente del Laboratoire de recherche historique Rhône-Alpes, aveva dedicato la sua tesi di master, difesa nel 1995. Il titolo era "Le Noir, société et symbolique (1815-1995)". All'epoca, faceva parte del crescente campo della storia culturale e dello studio delle rappresentazioni, di cui Michel Pastoureau stava diventando una delle figure più importanti nello studio del simbolismo dei colori». E ancora: «Nel corso dei capitoli, Samuel Paty studia il ruolo del nero nella costruzione di un sapere scientifico dispensato da studiosi autorevoli, la lotta tra bianco e nero nell'immaginario letterario e pittorico, le connotazioni negative del nero come colore della tristezza, della morte e del male, il suo potere religioso come abito segno di austerità o di fanatismo, e gli usi collettivi di quello che lui chiama "nero assoluto". Tra le righe, vediamo emergere la figura di un giovane intellettuale curioso, con uno stile chiaro e preciso, desideroso di mettere in dialogo tutti i campi che la storia può cogliere. Ma leggendo questo testo, la cosa più commovente non è che Samuel Paty sia stato uno studente eccezionale, più brillante degli altri, bensí al contrario, che abbiamo qui una traccia vivente del fatto che fosse simile a innumerevoli altri studenti di master nelle università europee, simile a quello che senza dubbio voleva fare dei suoi stessi studenti quando insegnava loro storia, geografia e ragionamento autonomo: una mente curiosa, intelligente e libera». Questa mente è stata spenta dagli estremisti islamisti, cui è negata questa libertà di pensiero, combattenti quali sono nel nome del loro pensiero totalitario. Non avete idea quanto più passano gli anni e più mi stanno sempre di più sul gozzo quelli che vivono di indottrinamenti e di certezze ideologiche. Talvolta sono politici che marchiano a fuoco i loro simpatizzanti, senza rendersi conto dei danni che fanno, perché infiammati dalle loro convinzioni che diventano certezze da trasmettere. "Cattivi maestri" si potrebbe dire, ricordando l'espressione adoperata negli anni di piombo, quando molti intellettuali rimasero zitti di fronte ai violenti e certi eredi spargono cattiva politica.