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20 set 2021

L'assillo fotografico

di Luciano Caveri

Oggi, quando scorri i giornali o guardi i siti informativi, riguardo a qualunque notizia di cronaca nera spuntano le foto più varie, postate sui "social" dai diversi protagonisti della vicenda. Quando ero un giovane cronista, le foto bisognava cercarle, o presso le Forze dell'ordine ed in genere erano foto tessere tratte dai documenti d'identità, oppure chiedere ai familiari e non era sempre facile in certi casi drammatici. In piena emotività e spesso affrontando il dolore dovevi fare il tuo lavoro e chiedere con reazioni molto diverse gli uni dagli altri. Ormai, invece, basta cercare un profilo "Facebook" o "Instagram" per ricostruire, anche in immagini, una vita. Quasi sempre - pensiamo ai femminicidi - sono immagini gioiose, spesso "costruite" nella logica di piacere, e restituiscono un'immagine un po' falsata, cartonata, che cozza nettamente con certi fatti di sangue. Idem per certi assassini, che in molti casi si atteggiano a bulli, a duri e di cui diventa facile cogliere certi segnali di predisposizione alle violenze poi compiute.

Amiamo fotografarci ed esibirci - ed io non faccio eccezione - in una specie di gioco nuovo, che risulta ben diverso dall'uso della fotografia in passato. Negli oggetti ereditati della mia famiglia figurano fotografie anche bellissime di personaggi vari, di cui però nessuno ha memoria e non si sa chi fossero. Molte di queste erano in studi di posa, una vera e propria ritrattistica, che aveva evidentemente sostituita la ben più costosa pittura. Oggi la rincorsa delle aziende che costruiscono i telefonini punta moltissimo sulla crescente efficienza delle macchine fotografiche ormai pienamente integrate. Guardavo le potenzialità dell'imminente "iPhone 13" e pensavo proprio a come il tempo sia cambiato. Credo di aver già raccontato di avere fatto per un'estate il garzone in uno studio fotografico e mi occupavo in particolare delle fototessere, allora in bianco e nero, che venivano stampate in un retrobottega, dove si correggevano i visi con la matita grassa per rendere più belli i soggetti, un artigianale ritocco, che era nulla rispetto alle attuali diavolerie di "Photoshop". Ebbene, ogni tanto, visto che nel negozio si vendevano anche macchine fotografiche ed era prima della rivoluzione digitale, mi studiavo questi apparecchi del passato, spesso già sofisticati, ma che impallidiscono al confronto di che cosa fa un nostro qualunque telefonino. La stessa cosa - lo dico per la mia esperienza televisiva - vale naturalmente per le telecamere, che oggi sono aggeggi fantastici in qualunque palmare. Questo vuol dire anche costi incredibilmente più bassi e una accesso, per così dire più democratico, sia alle fotografie che alle riprese. Insomma: tutto si evolve e l'aspetto che fa più "impressione" (verbo che evoca anche lo sviluppo dei rullini di cui mi occupai quell'estate) è proprio l'incredibile evoluzione tecnologica, che ovviamente titilla i nostri ego. Pensiamo ai viaggi, di cui in molti danno esatta cronaca pressoché in diretta e non conta solo il viaggiare ma il far vedere che si viaggia, postando miriade di fotografie, che finiscono talvolta per essere una specie di status symbol. Conosco chi esce dai "social" perché saturo e bisognoso, come un eremita, di una sorta di ritorno ad una dimensione intima e riservata. Una specie di silenzio delle immagini, dopo l'eccesso di visibilità di un mondo di immagini trasformato in un caleidoscopio da incubo. Nessuna obbliga nessuno, anche se - bisogna essere onesti - chi non segue i "social" talvolta viene visto storto. Io non sono mai entrato in "Facebook" e mi capita di trovare chi si stupisce con un sincero: «Davvero?».