Si è discusso in queste ore sull'opportunità o meno di mostrare le immagini colte da una telecamera fissa situata nella stazione d'arrivo, che hanno ripreso quella manciata di secondi della tragedia della funivia del Mottarone. E ciò avviene proprio quando sta per finire la corsa ed incombe l'irreparabile. Lo scoop, con la complicità di qualcuno che ha acceduto al fascicolo processuale, mostra la rottura della traente e la conseguente discesa a folle velocità della cabina verso valle, non fermata dai freni perché disinnescati, con il rimbalzo finale sul primo pilone che innesca il terribile schianto al suolo. Personalmente credo che sia stato del tutto legittimo rendere pubblica questa testimonianza visiva, che non fa altro che mostrare quanto più volte spiegato per scritto o con animazioni. Anzi, quanto si vede non fa che accrescere il desiderio di giustizia per quanto avvenuto e per evitare di dimenticare per via di quell'effetto ben noto che fa scendere il clamore sino all'oblio anche per eventi manifestamente clamorosi.
La televisione - ed oggi i "social" nelle loro diverse forme - ha il dovere di raccontare, e il diritto di cronaca ha limiti che vanno certo attentamente commisurati al valore sociale del racconto. In questo caso sono più gli elementi pro di quelli contro. Queste sequenze drammatiche sono come un grido verso chi è stato autore e complice di quei meccanismi che hanno ucciso in circostanze che mozzano il fiato. Per altro proprio in questi giorni si è discusso sul ruolo della televisione per via di un anniversario di un evento che colpì molto l'opinione pubblica ed anche me, che muovevo i primi passi come giornalista radiotelevisivo alla "Rai". Sono trascorsi infatti quarant'anni anni da quando a Vermicino, vicino a Roma, moriva Alfredino Rampi, sei anni, caduto in un pozzo artesiano. Era il 10 giugno del 1981 e ricordo bene come anche io come spettatore partecipai incollato allo schermo e ricordo che mi convinsi, parlando con la nostra Protezione civile, che forse solo una guida alpina avrebbe avuto la capacità di far risalire da quel buco maledetto il povero bambino. La "Rai" seguì il caso con una diretta lunga 18 ore, nata nella probabile convinzione di un happy end che non arrivò. Sul posto era arrivato anche l'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Si fece dare il microfono e provò ad incoraggiare il bambino. La perforazione del terreno riuscì ad arrivare al punto in cui si sarebbe dovuto trovare il bimbo: ma il piccolo era scivolato ad oltre sessanta metri di profondità probabilmente per le vibrazioni del terreno durante gli scavi. L'unica soluzione fu dunque quella di calarsi nel pozzo: ci provò Angelo Licheri, ribattezzato "L'Uomo Ragno". Era riuscito a resistere 45 minuti in quelle viscere appeso ad una corda ed a testa in giù. Parlò ad Alfredino raccontandogli favole, mentre nel frattempo gli toglieva il fango dagli occhi e dalle labbra. «Lo afferravo e scivolava via, non potevo fare nulla», raccontò Licheri. Poi ci provò lo speleologo Donato Caruso che lo raggiunse senza riuscire a salvarlo. La mattina del 13 giugno venne calato uno stetoscopio nel pozzo scoprendo che non vi era più battito cardiaco: il corpo di Alfredino venne raccolto da tre squadre di minatori l'11 luglio, un mese dopo la caduta. Quella telecronaca cambiò la televisione e mostrò la potenza della diretta ed anche il rischio, ancora ben presente, di eccessi di voyeurismo ed i confini flebili fra una televisione testimone e gli eccessi possibili quando si scelga di indugiare o di spettacolarizzazione, come gli orrendi processi farsa in televisione di casi di cronaca nera. Tema delicato che va manovrato con cura e con le necessarie cautele deontologiche, senza censure ma anche con la necessità di non oltrepassare mai la soglia della logica, del buongusto e soprattutto dell'interesse pubblico.