«Sin dalla formazione del governo sono stato molto chiaro: i due pilastri della politica estera italiana sono l'europeismo e l'atlantismo». Così ieri Mario Draghi, dopo un incontro con il Presidente americano Joe Biden, a margine del "G7" in Cornovaglia. Raramente scrivo di politica internazionale, ma questa volta lo faccio perché è bene che questa frase sia stata pronunciata. E lo è malgrado la compagine governativa sia multicolore ed ondivaga sul tema. Basti pensare alla recente visita all'Ambasciata cinese di Beppe Grillo con il nuovo leader pentastellato, Giuseppe Conte, sfilatosi all'ultimo minuto. O anche alla simpatia verso la Russia espressa più volte dal leader leghista Matteo Salvini. Per non dire dall'antiamericanismo storico dell'ala più sinistra della coalizione. Idem sull'antieuropeismo che ha visto voci concomitanti da aree diverse dell'attuale maggioranza con toni più o meno virulenti. Draghi ha rimesso la barra verso Bruxelles e chiarito con Washington che siamo nell'area occidentale e non schiacciamo l'occhiolino altrove. Che poi questo significhi per il presidente del Consiglio avere in mano realmente il bastone del comando è altra cosa. Viviamo ormai di un elettorato che cambia idea velocemente e con leader che seguono gli umori popolari senza colpo ferire. Le maggioranze sono ballerine e "l'uno vale uno" grillino ha portato in politica - e non solo nei "pentastellati" - molti dilettanti alle sbaraglio. E la competenza rischia di essere vista come caratteristica solo dei tecnocrati. Per cui lo scenario futuro resta indeterminato, ma sapere che non si guarda ai regimi liberticidi di Mosca e di Pechino è già una bella notizia per chi crede ancora nei valori democratici.