Quante definizioni, frutto poi di sensazioni ed emozioni, abbiamo raccolto, con la pazienza di un filatelico, attorno alla pandemia. La gamma è vastissima nel bene come nel male, a seconda dei momenti, delle circostanze e degli stati d'animo. Leggo su "Il Foglio" Fabiana Giacomotti, che scrive della fragilità con grande maestria. Così dice: «La fragilità, corollario semantico degli stati di crisi, è la nuova condizione esistenziale nell'era del "covid" e - immaginiamo - delle future pandemie, che tutti i virologi e la stessa "Oms" ci agitano davanti di continuo come frati trappisti, memento mori. Probabilmente ci sta bene così, ed è comprensibile: la fragilità è nozione delicata, preziosa, sostanzialmente molto positiva».
«Fragile è un vaso di porcellana - si legge ancora - un bicchiere di vetro di Murano nel negozio di lusso sotto i portici di piazza san Marco, oppure il cuore di cristallo delle principesse della favola che si rompeva con un crac e loro morivano senza un lamento, cadendo a terra esanimi con grazia in un turbinio di gale e volant. Fragili sono le foglie, nuove o secche, a cui millenni di poesia hanno associato la caducità umana, da Omero a Ungaretti "di che reggimento siete / fratelli? Parola tremante nella notte / foglia appena nata / Nell'aria spasimante / involontaria rivolta / dell'uomo presente / alla sua fragilità / fratelli". Foglia. Fragilità. Fratelli. "F", la consonante del soffio vitale, del vento, dell'aria fresca, della leggerezza. La fragilità evoca immagini leggere, eteree: volete mettere con l'orrore gravitazionale, materico e pesante della ruga d'espressione, con l'acciacco dell'età, con l'imbarazzo della mancanza di lavoro; questo soprattutto, che intere generazioni sono state educate a superare con la forza di volontà, facendo affidamento sulle proverbiali "sole proprie forze", e abbinandovi il senso di colpa per ogni fallimento?». Nel trovare la risposta è facile avere un senso di identificazione con parole che seguono: «Per i "Baby boomer" e per noi "Generazione X", con il cinismo di cui ci hanno sempre accusati e forse con qualche ragione, la fragilità era, ed è tuttora, un non dato, al punto che tutta questa frangibilità sbandierata ovunque, citata nei "Dpcm", evocata dal presidente Sergio Mattarella nel discorso di fine anno, indicata da Papa Francesco all'Angelus, un po' ci imbarazza perché ci pare una concessione, ennesima e particolarmente insidiosa, al lessico politicamente corretto, cioè volgarmente ipocrita. Un modo, insomma, per non offendere i tanti di noi caduti vittime a diverso titolo della pandemia; da parte della compagine di governo, poi, ci pare un mezzo a buon mercato per mostrarsi compassionevole (i congiunti, i fragili) nei confronti di un elettorato che le rimprovera sordamente, cupamente, le molte mancanze e i molti non detti nella gestione dell'emergenza. Fragili di ogni ordine e grado, in fila a scalare e in attesa di tutto: vaccini, permessi per uscire e spostarsi, denari. Una nuova categoria omnicomprensiva, globale e trasversale; una razza delicata, cagionevole e dunque meritevole non di aiuti di stato, bensì di "ristori", e chi non capisce bene si informi. Scorrendo siti e account social si scopre che i sindacati sono al lavoro da tempo sulla semantica, perché non tutti hanno ben chiaro se il grado della propria frangibilità sia sufficiente a garantire loro il ristoro, o l'esenzione da qualche balzello: "Scusate vorrei capire, che cosa significa essere lavoratori fragili?", domanda uno. "Che sono malato o che rischio di perdere il lavoro?". E un'azienda, filosofeggiano sornioni, può essere fragile anche lei perché è fatta di uomini oppure no perché è costruita in cemento armato?». Si scopre così, nel filo dei pensieri, quanto sia vero che dietro a certo lessico, impostato proprio dal politicamente corretto ed anche dal burocratese oscuro, esiste non solo dilettantismo ma anche un'evidente intenzionalità. Le parole divengono un mantra ripetuto all'infinito con un fine quasi ipnotico. Così Giacomotti: «Ed ecco che, come per i congiunti, termine vago, poetico, interpretabile, correttissimo perché mai offensivo o discriminante, perché congiunti sono tutti quelli a cui ci va di aprire la porta e talvolta anche sollevare le lenzuola, il sito sindacale rimette mano al dizionario, abbranca i "Dpcm", si avventura nella spiega: "Lavoratori fragili sono coloro che, per intenderci, in caso di positività al virus "Sars-CoV-2" rischiano gravi ripercussioni alla salute se non addirittura la morte". Per intenderci, e chi non intenda in roulotte, come diceva una battuta delle nostre scuole primarie. E i cardiopatici che l'hanno sfangata? E i (pur pochi) ragazzoni sani che invece ci sono rimasti secchi? Dove inizia la fragilità? Boh. Il lessico innanzitutto. Quest'anno ci ha "battered round", come cantava Bob Dylan negli anni dei Travelling Wilburys, ci ha provati, dunque è giusto che si venga trattati con cura anche nelle parole che ci vengono rivolte. "Handle me with care", cioè non offendetemi. E la cortesia, i signori insegnano, è anche questione di linguaggio». Ma poi l'articolo picchia più duro nello svelare l'ipocrisia: «Dunque, nessuno è debole. La debolezza evoca mollezze, torpidità, scarsa fiducia in se stessi, addirittura stupidità nella sua etimologia, cioè mancanza di qualcosa (in francese, un "débile" è un idiota), insomma per gli standard attuali di considerazione della razza umana, la debolezza è un'offesa, anzi una non-nozione. Non esiste, semplicemente. Ma quando si arriva al punto di dover definire categorie svantaggiate, gente che a diverso titolo "non ce la fa", ecco che bisogna trovare una definizione comune, che accontenti e comprenda tutti, o anche nessuno purché non offenda. E dunque, rieccoci al punto di partenza. A questa fragilità che all'improvviso ci riguarda tutti». Mi scuso se mi fermo a questa sola parte dell'articolo ricco, colto e ironico. Ma anche io trovo che questa storia della fragilità sia ormai un vezzo linguistico, che copre, come può fare un manto nevoso, la situazione difficile in maniera apparentemente pudica ed invece si vuole dare un'apparente leggerezza a quanto di greve e volgare c'è nelle conseguenze della pandemia.