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09 nov 2020

La crisi del mito americano

di Luciano Caveri

Sono cresciuto con il mito americano come tanti della mia generazione. Lo dico senza fil rouge. Sarà stata la vicinanza del dopoguerra, i film, la musica, i modi di vita, le mode e i costumi. Gli States erano i "Peanuts", i romanzieri, l'arrivo sulla luna, la saga Kennedy. Poi ho studiato la loro storia, grandiosa e meschina, ed anche il federalismo, che è alla base di certe libertà. Certamente una società fra mille contraddizioni e tanta violenza ma sempre in movimento a creare novità e ad indicare strade. Per quattro anni abbiamo vissuto questa epoca di Donald Trump, che ha fatto rimpiangere persino Ronald Reagan, che ha messo addosso una tristezza per gli States, come un carillon dal suono brillante che dapprima perde il ritmo e infine si ferma.

Carlo Renda su "Huffpost" mi ha svelato pensieri suoi coincidenti con i miei, mentre seguo i balbettamenti delle votazioni presidenziali, che ora indicano in Joe Biden il vincitore: «E' alla fine davvero così rilevante sapere se sarà Donald Trump o Joe Biden a guidare gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni? Certamente lo è, ma il nome del presidente finisce drammaticamente in secondo piano davanti all'immagine del disfacimento del modello americano. E allora stavolta diventa forse più rilevante sapere se il prossimo presidente avrà il Congresso dalla sua parte o dovrà combattere tra una Camera democratica (questo è certo) e un Senato repubblicano (è un testa a testa), vedendo così limitata la sua azione. Perché che sia Biden I o Trump II, il nuovo presidente si troverà davanti un lavoro immane». Comunque sia, meglio Biden! Già i conti non tornano più ed anche questa volta si rischia la paralisi e si deve constatare come l'America scivoli verso il basso. Così ancora l'articolo: «Perché quella che spesso viene indicata come la più grande democrazia occidentale conferma tutti i suoi limiti, le sue fragilità proprio nell'appuntamento clou delle presidenziali. Sul modello democratico americano si abbatte in primo luogo un sistema elettorale sfilacciato e inefficiente: non è la prima volta che si aspetta la conta dei voti - indimenticabile la Florida che incoronò George W. Bush e deluse Al Gore - ma qui le "Floride" sono cinque o sei e dal fallimento del caucus in Iowa ai ritardi dello spoglio di queste ore, dai timori di hackeraggi stranieri fino alla contestazione trumpiana di una frode democratica... da tutto questo emerge l'esigenza di una profonda riforma. Sia chiaro, nella nuova fotografia degli Usa non si fan rivoluzioni: c'è un'America della costa - tutta quella occidentale, il nord di quella orientale - solidamente democratica; c'è un'America interna e sud-orientale profondamente repubblicana; c'è poi quell'America del midwest che ancora una volta segna l'ago della bilancia del risultato finale. Ancora una volta, dopo quattro anni, il candidato democratico conquista qualche milione di voti in più, ma sta lì a combattere nella conta dei grandi elettori». E poi più avanti: «Era facile prevedere che si potesse arrivare a un "too close to call", con Donald Trump che compare in conferenza stampa a suon di marcetta per autoassegnarsi Stati in bilico, dichiarare anzitempo il tertium non datur, o la sua vittoria o la frode del suo rivale, addirittura a chiedere protezione alla Corte Suprema. (...) Un secondo aspetto di disfacimento emerge dalla fotografia elettorale americana, che immortala due partiti in profonda crisi esistenziale, spaccati al loro interno, fiaccati da un vuoto generazionale della classe politica, condizionati da un meccanismo di leadership che per emergere sempre più può fare a meno di idee forti, ma certamente non di una montagna di soldi e di macchine comunicative complesse e diaboliche. I Repubblicani sono evaporati davanti alla leadership debordante di Donald Trump, per quattro anni si sono aggrappati al presidente tycoon, hanno ingoiato veleno, sono stati costretti a difenderlo malgrado non l'abbiano né amato né considerato uno dei loro. I grandi vecchi del Gop hanno timidamente resistito: John McCain ha combattuto come un leone ma non c'è più, Mitt Romney ha solo smosso l'aria con le sue critiche. I Democratici, dal canto loro, hanno scelto l'usato sicuro di Joe Biden - come quattro anni prima con Hillary Clinton - una scelta frutto di un accordo interno fatto a tavolino, su cui Barack Obama ha inciso fortemente, per portare avanti un candidato presidente moderato - con Bernie Sanders frenato dal tempismo degli addii dei vari sfidanti alle primarie. Le giovani leve dem hanno brillato il tempo di una cometa, Pete Buttigieg o Alexandria Ocasio-Cortez sembrano più eterne promesse che progetti di leader nazionali». Conseguenti le conclusioni: «Un terzo aspetto, poi, la politica americana ha sbattuto con un clima di campagna elettorale inusitatamente feroce e svuotato di contenuti: le scorrettezze reciproche, i dossieraggi, l'esplosione delle tensioni sociali, la violenza nelle strade, la polizia spesso fuori controllo, i rigurgiti dell'odio razziale si sono riversati in pieno nella battaglia presidenziale. Il primo dibattito televisivo fra Trump e Biden resterà - in fondo è perfino auspicabile - impresso come uno dei punti più bassi nella storia elettorale americana».