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05 nov 2020

Coprifuoco

di Luciano Caveri

Ricevo molti messaggi, anche i più strani, su questa storia del virus, che ho indagato in una lunga serie radiofonica nella prima fase della malattia, quella in cui eravamo tutti alla ricerca di qualche certezza. Ora non la osservo più da giornalista, ma da decisore di alcune parti del vasto e complesso puzzle della malattia. Ora si è sospesi in attesa di capire quanto avverrà rispetto al momento attuale denso di attese e vorrei oggi prendere da lontano il soggetto. L'incendio nel passato, anche nei paesi della Valle d'Aosta, era un incubo e bastava poco - con il fuoco vivo nelle case - a creare autentici disastri. Ricordo di aver letto come l'arrivo delle assicurazioni antincendio avesse fatto tirare un sospiro di sollievo. Ci pensavo rispetto all'uso di questa parola antica che è "coprifuoco", adoperata in queste ore per il blocco che costringe a casa anche da noi dalle ore 21 alle 5 per evitare i contagi in un momento in cui la ripresa della pandemia pare superiore ad ogni previsione. Con buona pace di alcuni imbecilli che agitano un complotto dei poteri forti per privarci della notte, questa misura, per prima adottata in Francia, mira ad evitare che specie i giovani continuino ad incontrarsi al di fuori degli esercizi pubblici chiusi alle ore 18.

Ma cosa c'entra il "fuoco"? Il termine in italiano nasce nel Medioevo, quando in alcune città, al fine di prevenire gli incendi, veniva imposto lo spegnimento ("copri") di ogni fuoco, lume o lanterna durante le ore notturne. Il rintocco di una campana o lo squillo di una tromba segnalava agli abitanti di una città l'obbligo di spegnere il fuoco sotto la cenere come precauzione per evitare incendi accidentali. Ma il termine "coprifuoco" per la generazione dei miei genitori e mia mamma ha ancora ricordi dì quando era ragazzina richiama la guerra e dunque l'uso odierno evoca paura e miseria ed è stampato nella nostra memoria storica. Perché quest'altro "coprifuoco" è stato spesso utilizzato per indicare la pratica diffusa, durante i periodi bellici, per proteggere o controllare la popolazione, a seconda degli scopi delle autorità. In Italia, ad esempio, durante l'occupazione nazista fu imposto in diverse località da Sud a Nord il coprifuoco notturno per impedire assembramenti della popolazione locale. In questo caso, chiunque non avesse un permesso era tenuto a rimanere nella propria abitazione per non incorrere in sanzioni sino alla minaccia di sparare a vista. Tant'è che la "Treccani" così spiega: "Divieto straordinario di uscire durante le ore serali e notturne imposto dall'autorità per motivi di ordine pubblico, in situazioni di emergenza". E l'emergenza esiste, malgrado chi la nega e disegna scenari fantasiosi sulla sua infondatezza. Invece ci sta la necessità di avere paura. Scriveva Giorgio Faletti: «L'errore che tutti gli uomini fanno da sempre. Cercare di mostrarsi forti e sprezzanti e vincitori quando forse basta avere il coraggio di chinare la testa e dire: "ho paura"». La malattia resta in questi frangenti il problema su cui tutto ruota. E su questo ha scritto Susan Sontag: «La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno della salute e in quello della malattie. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell'altro paese».