Ho garbatamente criticato in Consiglio Valle, dove sono tornato di recente e che ritengo vada valorizzato non solo come legislativo e per le discussioni su temi amministrativi, ma per il dialogo politico, certo uso guerresco delle parole. Trovo che senza mutare la logica della dialettica politica i toni eccessivi vadano ridimensionati. Leggevo i pensieri di Oscar di Montigny, manager dai profondi pensieri: «Le parole sono importanti. Lo sono sempre, in tempi tranquilli e in tempi difficili. Con le parole rendiamo reale il mondo. I pensieri, i progetti, il futuro, quello che sarà prendono forma e si sostanziano attraverso le parole. Tutto esiste se viene raccontato. Le parole che si scelgono per nominare e descrivere gli eventi, i fenomeni, gli accadimenti, ci aiutano a capirli o a non capirli correttamente. Perché? Perché scegliendo parole e definizioni imprecise o addirittura distorte, si attivano sentimenti, decisioni e azioni conseguentemente distorte».
L'autore non si riferisce alla Politica, ma ad un altro tema di grande attualità che in fondo viaggia in parallelo ad una certa distorsione nell'uso delle parole. Così argomenta: «E qual è il lessico italiano usato nei giorni di emergenza sanitaria? Quello bellico. Un lessico che ha aggiunto una ulteriore cappa di paura, sospetto, ansia e incertezza nel futuro a una condizione sconosciuta e del tutto nuova sia dal punto di vista scientifico sia contemporaneamente politico-amministrativo». Torniamo alla Politica in questo discorso fra due visioni parallele. Ha scritto Vittorio Coletti dell'Accademia della Crusca: «Sono molti a sostenere che in Italia il linguaggio politico è molto cambiato. E non a torto. Se in passato la lingua della politica suonava astrusa o troppo compassata o così settoriale da permettersi di infrangere le regole della geometria con le celebri "convergenze parallele", oggi rumoreggia volgare e schietta, diretta e approssimativa. Prima si cercava di parlare in pubblico meglio di come si mangiava, oggi ci si vanta di parlare come si mangia (col sottinteso che si mangia male). Si è passati da una lingua colta, forte ed esclusiva, a una lingua popolaresca, debole ed inclusiva. Giuseppe Antonelli ha ben sintetizzato questa evoluzione dicendo che si è passati dal "paradigma della superiorità" a quello del "rispecchiamento", abbassando il livello stilistico del discorso politico a quello medio-basso della lingua quotidiana. Indizio vistoso di queste novità la consuetudine di nominare i leader col nome proprio (Silvio, Beppe, Matteo...), segno equivoco di familiarità e devozione, di vicinanza e sudditanza. Questo cambiamento è andato in parallelo con l'affermazione di una comunicazione politica più orale che scritta. In precedenza, era "scritto" anche il discorso in pubblico (spesso letto); oggi è "parlato" anche un testo scritto (e magari letto di nascosto su un "gobbo" invisibile allo spettatore). Del resto, sono cambiati anche i formati comunicativi e dalla lunga orazione solista dei comizi si è passati al concitato diverbio a più voci dei talk show. Il mutamento si osserva sia nel lessico (con ospitalità anche a parole basse, scatologiche, volgari) che nella sintassi (con prevalenza di costrutti semplificati, frasi nucleari, paratassi spinta nei testi più meditati oppure di periodare ipertrofico e inconcluso, disordinato e sempre riformulato in quelli improvvisati)». Tutto ciò si è traslato anche nel linguaggio della pandemia non solo fra i famosi virologi ma anche fra i politici, che già lo usano sempre più contro i propri "nemici" in politica e farlo contro il virus è nocivo, come ha ricordato Manuele Fior: «Il lessico militaresco e la visione bellica che esso comporta, non aiutano ad affrontare l'attuale condizione di vita da un punto di vista psicologico e cognitivo. E se non lo fanno come individui figuriamoci come società».