Ho seguito con vivo interesse la carriera di Oscar Farinetti, che frequentai anni fa, apprezzandone cultura e acume, per il progetto - ucciso in culla da chi dopo di me bocciò un percorso già avviato - che era stato chiamato la "Porta della Valle d'Aosta" e che sarebbe dovuta sorgere a Pont-Saint-Martin. L'idea nasceva da un pensiero: se mai si fosse realizzata nel dopoguerra la famosa "zona franca", allora proprio a Pont-Saint-Martin - come avviene oggi a Livigno - ci sarebbe stata una barriera doganale con un "effetto frontiera" per controllare l'esportazione dei prodotti al consumo non tassati. Il secondo pensiero stava nel fatto che l'ingresso-uscita della Valle potesse essere valorizzato da una scelta architettonica di prestigio che fosse un benvenuto ed un arrivederci e che fosse anche una sorta di "autogrill" del nuovo Millennio, neppure lontano parente delle aree di sosta autostradali (pur ora in miglioramento), con le eccellenze della Valle e dell'Italia.
Il progetto era stato sottoposto al vaglio degli esperti dei fondi comunitari che ne avevano validato la sostenibilità economica e sarebbe stata un'area - comprensiva di un ponte sull'autostrada come "segno" - cui poter entrare da entrambe le direzioni dell'autostrada in un parcheggio di sosta che sarebbe stato anche, con il treno, il punto di partenza, nel breve tragitto verso la stazione di Hône, per i visitatori del Forte di Bard. Interessato al progetto, persino con una prima ipotesi progettuale di un immobile a forma di un'antica gerla, sarebbe stato appunto Oscar Farinetti di "Eataly" con la maggioranza della società e si sa che si tratta la "Porta" avrebbe avuto ristoranti e spazi vendita di grande qualità e attrattiva. Un'idea nel solco dell'intuizione di valorizzare con vendita e ristorazione i prodotti del settore alimentare "Made in Italy", che nacque nel 2007 al "Lingotto" di Torino (nella fabbrica ex "Carpano") e si è poi diffuso, visto il successo, in Italia e all'estero. A dir la verità ora la fortuna di Farinetti si è un po' appannata per via di un'operazione visionaria che ho visitato a Bologna nei giorni scorsi. Mi riferisco a "FICO – EatalyWorld" (acronimo di "Fabbrica Italiana COntadina"), il parco tematico alla periferia della città, dedicato all'agroalimentare ed alla gastronomia Made in Italy, inaugurato, dopo cinque anni di lavori, nel novembre 2017 e partecipato in forma paritetica tramite il veicolo "Eatalyworld srl" dalla "sua" Eataly e da "Coop Alleanza 3.0". E' uno dei più grandi parchi al mondo nel suo genere, occupando dieci ettari, di cui otto coperti, nei quali sono presenti negozi e ristoranti di 150 aziende ed una fattoria didattica illustrativa delle attività agricole di coltivazione e di allevamento, oltre a molte altre cose. Un gigantismo impressionante, ma poca gente ed un senso di vuoto che finisce in tristezza sin dall'ingresso. Tutto sembra vivacchiare in una sorta di cattedrale nel deserto, che certo è vuota per ragioni contingenti, ma anche - parlando con alcuni bolognesi - dal fatto che la città è di fatto fuori dai grandi circuiti del turismo e l'attrattività del Parco sembra non aver cambiato di molto la situazione. Alla data di dicembre 2019, quindi ben prima della pandemia da "covid-19", il bilancio era fortemente in rosso. Di recente Farinetti aveva spiegato che l'affluenza dei visitatori italiani era sui livelli attesi, mentre quella degli stranieri non raggiungeva il 25 per cento dei due milioni di ospiti attesi nel 2019. Non ho idea di quanto potrà resistere questo "FICO" e già molti hanno abbandonato la nave. Chi pensa alla sua eventuale riconversione di interroga su che cosa si potrebbe fare di uno spazio così enorme. E' davvero un peccato, ma talvolta può capitare che un'intuizione - specie se così grande e costosa - possa trasformarsi in un flop.