Nel solco di una visione contemporanea, ma anche del federalismo personalista, deve esserci, mantenersi e rafforzarsi un modello di "Welfare alla valdostana", espressione originale e locale del più celebre "Welfare State", tradotto in "Stato-sociale" all'italiana o nell'espressiva definizione francese di "Etat-providence". Dopo il "covid-19" mai come ora bisogna rifletterci e non è certo la sua versione nefasta fatta di assistenzialismo. Sotto il profilo occupazionale esiste la solita differenza fra dare un pesce ("Reddito di cittadinanza"...) o una canna da pesca (occasioni di lavoro...). Parafrasando l'antico e pur massonico "Diritto alla Felicità" della Costituzione americana, ritengo che in una piccola comunità debbano emergere elementi di solidarietà e di fratellanza con politiche pubbliche attive, che sappiano coinvolgere le energie del privato.
Ripeto, come Welfare efficace si dovrebbe mettere assieme il verticale e quello orizzontale, che fa parte del patrimonio politico e culturale della Valle, fatto anche di cooperazione e di "terzo settore". Ricordo una "Bustina" di Umberto Eco, che ammoniva sulla Felicità: «Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono - dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in televisione, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa - siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d'indipendenza americana del 4 luglio 1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che "a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità". Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell'obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche. La letteratura sulla felicità è immensa, a iniziare da Epicuro e forse prima, ma a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos'è la felicità. Se si intende uno stato permanente, l'idea di una persona che è felice tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota - o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse». Poi picchia duro: «La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l'amato o l'amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l'esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l'Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione. Inoltre l'idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l'infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista. Questa idea di felicità pervade il mondo della pubblicità e dei consumi, dove ogni proposta appare come un appello a una vita felice, la crema per rassodare il viso, il detersivo che finalmente toglie tutte le macchie, il divano a metà prezzo, l'amaro da bere dopo la tempesta, la carne in scatola intorno a cui si riunisce la famigliola felice, l'auto bella ed economica e un assorbente che vi permetterà di entrare in ascensore senza preoccuparvi del naso degli altri. Raramente pensiamo alla felicità quando votiamo o mandiamo un figlio a scuola, ma solo quando comperiamo cose inutili, e pensiamo in tal modo di aver soddisfatto il nostro diritto al perseguimento della felicità». Sono parole realistiche ma personalmente mi auguro che, proprio per la loro crudezza, consentano di riflettere su quanto, invece, si potrebbe fare in una piccola comunità come quella valdostana alla ricerca di quei segni di coesione umana, coltivando quella rete di protezione a vantaggio di tutti i cittadini, che non è una remota utopia. Specie se si guarda avanti e, come diceva Denis de Rougemont: «Toute politique est autorisation de l'avenir». Sappiamo, per esperienza, che non per tutti c'è davvero questo sguardo verso il futuro. Tutti piagnucolano sul declinare della demografia e sulle difficoltà per le famiglie e sui rischi di abbandono degli anziani, ma poi nella realtà sembra mancare un filo logico e c'è chi preferisce la strada utile del "panem et circenses" e del clientelismo come chiave che lega i cittadini alle loro scelte elettorali. In sostanza una sconfitta per la democrazia. Così penso, scrivendo in coda, a come l'espressione "Stato sociale sostenibile" non possa essere la foglia di fico per l'uso indiscriminato di tagli, taglietti e soprattutto di tariffe che gravino su tutto con un uso non equilibrato di quel termine a doppio taglio che è proprio in Sanità "l'appropriatezza" (misura di quanto una scelta o un intervento diagnostico o terapeutico sia adeguato rispetto alle esigenze del paziente e al contesto sanitario). Non bisogna deflettere sui servizi al cittadino ed alle famiglie, non è un piacere fatto dalla politica ma un suo dovere!
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