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16 mar 2020

Obbedisco...

di Luciano Caveri

Ora si svolta e con le ultime decisioni sul "coronavirus" o la va o la spacca e non c'è più spazio per fare i furbi, pena il rischio di soccombere. Siamo giunti al redde rationem e vale la pena di tornare indietro sulla vicenda per guardare avanti. Esiste una logica all'italiana, che mai ho condiviso, che riguarda la regola accompagnata sempre dalle eccezioni. Ricordo quando contribuivo alla scrittura delle leggi, dando il mio apporto come deputato in quei tavoli più ristretti - si chiama "Comitato dei nove" - dove si esaminano emendamenti e sub-emendamenti e, essendo senza rendicontazione, si scioglievano i nodi più delicati in discussione. Ebbene, mi accorgevo sempre che qualche collega parlamentare cercava sempre di allentare le corde, ad esempio con l'uso della formuletta "di norma", che voleva dire che "normalmente" valeva la regola, ma ci potevano essere casi particolari. Così si aprivano voragini interpretative.

Nel solco pare si perseveri anche nei provvedimenti - Decreti legge e decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri - dedicati alla questione del "coronavirus", che partono dalla logica di accentrare sullo Stato quelle competenze di gestione di un'emergenza sanitaria, che non possono essere considerate in negativo neanche dal più fervente regionalista quale io sono. Ma troppi pasticci sono stati fatti, oscillando fra lassismo iniziale e successivo "pugno di ferro", spesso scaricando sulla democrazia locale balbettamenti da ascrivere alle Autorità centrali, quando ben si sa che in trincea ci sono politici ed amministratori locali. E naturalmente in prima linea ci sono gli esperti, cui dare la necessaria credibilità e molti virologi sin dalla prima ora avevano invitato ad una rude disciplina ed a scelte drastiche per evitare di essere complici del virus. In certe fasi, forse cruciali, questi appelli sono stati trattati come se a farli fossero "Cassandre" pessimiste e ora gli stessi che irridevano gli "allarmisti" mostrano i muscoli in discorsi televisivi in cui spicca il premier Giuseppe Conte che si è spinto sino a considerarsi come un Winston Churchill all'epoca della Seconda guerra mondiale. In un Paese normale sarebbe stato spernacchiato ed invece tocca affidarsi a lui, che annuncia la notte, per la terza volta in cinque giorni, quel che tocca fare l'indomani e bisogna farlo, malgrado la disistima. Anche sul piano valdostano - lo scrivo con serenità - credo che il Governo regionale dovrebbe coinvolgere di più le opposizioni - e speriamo lo faccia - in una logica di grande emergenza e anche essere maggiormente all'ascolto del mondo del lavoro, delle associazioni, di quella che viene definita la "società civile". L'impressione talvolta è che la catena di comando sconti una certa confusione ed anche dilettantismo di chi ha posti di responsabilità, perché non sono solo i voti che fanno la professionalità in politica. Non faccio di tutta un'erba un fascio, essendoci anche professionalità acclarate nella gestione degli eventi, difficili per chiunque abbia posti di responsabilità. Ma tacere iniziali sottovalutazioni, mancanza di materiale medico essenziale e una certa cacofonia che ha rallentato le risposte non vuol dire polemizzare inutilmente, ma aiutare chi combatte contro il virus. Pensare che chi c'è chi pensa ancora di votare, come se nulla fosse, il 10 maggio per le Regionali e il 17 maggio per le Comunali dà il senso delle cose e di visioni miopi rispetto alla posta in gioco, che vuol dire far vivere più persone nella battaglia campale in corso, che potrebbe avere picchi impressionanti. Non lo dico per fare paura, anche se come molti mi sono formato l'idea che non diffondere il panico non significa affatto indorare la pillola, ma perché è ora che spariscano nella nostra comunità coloro che sottostimano e non si attengono alle regole, contando proprio con quella logica di tolleranza che in Cina non è esistita. Mai scrivere che invidio la dittatura comunista che impone i comportamenti, perché sanziona con durezza. Resto convinto che anche e soprattutto in democrazia ci sono mille buone ragioni per spiegare che se ci si deve comportare disciplinatamente in un certo modo non è una coercizione, ma ciò deriva dalla necessità di contrastare un'epidemia grave e potenzialmente molto luttuosa. Condivido e pubblico un editoriale di Francesco Cundari su "Linkiesta": «Questi sono i giorni della retorica, e andrebbe anche bene, se non fosse una cattiva retorica. Il ritornello sugli italiani casinisti e indisciplinati che però danno il meglio di sé nelle emergenze, ad esempio, è una scemenza, ma soprattutto non è quello che serve adesso: non è il momento delle simpatiche canaglie, degli adorabili sbruffoni, dei Vittorio Gassman, degli Ugo Tognazzi, degli Alberto Sordi (sto parlando dei loro personaggi, ovviamente, non degli attori). Ancora peggiore è la retorica della grande tragedia collettiva che servirà a temprare finalmente il nostro carattere nazionale, a trasformare i casinisti di cui sopra in eroi senza macchia e senza paura. Anche alla vigilia della Prima guerra mondiale fior di intellettuali si invaghirono dell'idea che il conflitto sarebbe stato un grande lavacro purificatore da cui il popolo sarebbe uscito mondato dalle sue tare storiche, finalmente unito, civilizzato e fatto nazione. Ne siamo usciti con vent'anni di dittatura, fine delle libertà civili, analfabetismo diffuso, leggi razziali e una nuova Guerra mondiale. Non abbiamo bisogno di un grande lavacro purificatore, ma di imparare a lavarci le mani regolarmente, ed a fare regolarmente un sacco di altre piccole cose, tutti i giorni. Abbiamo bisogno di più persone che facciano semplicemente il proprio dovere, invece di lavarsi la coscienza chiamando eroi, angeli, superman quei pochi che già lo fanno, come medici e infermieri oggi schiacciati da carichi di lavoro massacranti, in condizioni limite. Se ci pensate, il problema principale di questo "coronavirus", il motivo per cui ci appare così difficile da affrontare, è proprio questo: che per sua natura non è un nemico che possa essere sconfitto da un pugno di eroi, ma solo da un esercito di persone scrupolose. Non c'è singolo colpo di spada, colpo di genio o colpo di culo che possa batterlo (che sarebbe, spade a parte, praticamente tutto ciò a cui siamo soliti affidarci nei momenti difficili, dal mondiali di calcio alla finanziaria). Non ci sono scorciatoie. Non c'è "mossa del cavallo" - non a caso la metafora più usata nella storia politica italiana, da Vittorio Foa a Matteo Renzi - che permetta di "saltare" il duro, pesante, noioso schieramento delle mille piccole e grandi obbligazioni reciproche da rispettare, dei tanti vincoli di cui tenere conto, di tutto quel complicatissimo intreccio di norme scritte e non scritte che ci impedisce di fare solo ed esclusivamente quel che ci pare. E' questo il vero problema che noi italiani abbiamo con il "coronavirus". E' questa - prima ancora dell'impreparazione o dell'improvvisazione del governo - la vera minaccia al nostro stile di vita. Il motivo per cui non ci raccapezziamo con l'epidemia è che è un problema collettivo, e noi non siamo una collettività. Tutti gli atti di eroismo, generosità e solidarietà di cui siamo capaci sono naturalmente preziosi, ed è giustissimo esserne fieri. Ma dobbiamo sapere che per uscire da questa tragedia - che è fatta di una crisi sanitaria immediata e di una crisi economica e sociale imminente - non basteranno il grande cuore e i milioni di volontari e tutti gli angeli di questo o di quello pronti a sacrificarsi fino allo stremo. Servirà la pazienza e la disponibilità, da parte di tutti, a sacrificare qualcosa delle proprie personali esigenze e preferenze, in nome del bene di tutti. Servirà che un numero un po' più alto di questi nostri concittadini dal grande cuore, oltre a donare meritoriamente tanti soldi per gli ospedali nel momento dell'emergenza, si ricordi pure nel resto dell'anno di chiedere o emettere regolare fattura, scontrino, ricevuta, insomma di pagare le tasse con cui l'intero sistema sanitario è finanziato, e non pretenda domani di essere rimborsato dallo Stato - cioè da ciascuno di noi - per perdite superiori a quello che aveva dichiarato di guadagnare nell'intero anno precedente». Nulla da aggiungere.